31 Lug La Repubblica fondata sull’emigrazione [Quotidiano del Sud – 31/07/22, p. 14]
Gli effetti del grande spopolamento delle aree interne analizzati da un gruppo di studiosi diretti da Ricciardi
di Paolo Saggese
Forse nessuno meglio di Massimo Troisi ha sintetizzato l’idea, che per molti decenni abbiamo avuto del nostro destino di meridionali. Un meridionale non viaggia semplicemente, emigra, ovvero lascia il proprio paese, la propria famiglia, “fugge” letteralmente (questa è la parola più spesso usata dai poeti del Sud), “fugge” alla ricerca di un lavoro e di un tozzo di pane, non può viaggiare per conoscere o per piacere, da turista distratto o interessato. Non a caso Manlio Rossi-Doria, per descrivere un fenomeno consistente nell’abbandono simultaneo di un luogo da parte di un numero notevole di cittadini, conia negli anni ’60 il termine “cairanizzazione” (dal piccolo paese altirpino di Cariano). E ognuno di noi potrà richiamare alla memoria nonni, bisnonni, avi, o zii o cugini o amici, che hanno raggiunto alternativamente le Americhe, o la Svizzera, la Francia o la Germania, a seconda dei tempi e delle occasioni.
La grande emigrazione, il grande spopolamento delle aree interne, ebbero inizio subito dopo l’Unità d’Italia (dal 1875 circa), a seguito anche degli effetti delle politiche economiche nazionali (gli effetti disastrosi della repressione del brigantaggio, il protezionismo, le tassazioni, la leva obbligatoria, …), che peggiorarono persino le già precarie condizioni economiche dei braccianti e dei piccoli contadini del Sud, favorendo gli interessi di industriali e operai del Nord e grandi proprietari meridionali.
Ad offrire adesso uno spaccato eccezionale di questa vicenda, che ha inizio con la stessa storia dell’umanità, ci pensa un gruppo di studiosi, che hanno dato alle stampe, con la direzione dello storico irpino Toni Ricciardi, al primo volume della “Storia dell’emigrazione italiana in Europa. Diretta da Toni Ricciardi. I. Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1789-1956)”, Progetti Donzelli, 2022. Oltre all’ampia introduzione del direttore, nel libro si segnalano i saggi di Luigi Mascilli Migliorini, sul tema dell’emigrazione come “forma della modernità”, di Alessandro
Bonvini, sull’emigrazione durante il Risorgimento italiano, di Stefano Luconi, sulla “mobilità” in Europa tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, di Gian Carlo Perego, sul ruolo della Chiesa, di Marisa Fois, sulle migrazioni italiane nei paesi del colonialismo europeo, di Toni Ricciardi, sull’emigrazione dalla Repubblica a Marcinelle (1956).
L’opera prevede altri tre volumi, che abbracceranno le periodizzazioni dal Trattato di Roma all’elezione del Parlamento europeo (1957-1979), dalla generazione Erasmus al Trattato di Nizza (1987-2001), dall’euro al Covid-19 (2002-2022).
Ovviamente, agli studiosi non sfugge che l’emigrazione, la mobilità in generale siano stati fenomeni da sempre legati al destino e al comportamento umano, ma in questa loro periodizzazione individuano una cesura netta, che cade con la Rivoluzione francese, che in effetti rappresenta l’inizio di una modernità, da cui è scaturito il mondo attuale, almeno in relazione alla nostra prospettiva europea e occidentale.
Acquisendo l’approccio della “Global History”, che permette di analizzare in profondità fenomeni combinando micro e macrostoria, Toni Ricciardi scrive: “La Rivoluzione francese generò molteplici ondate di migrazioni di massa. I migranti cercarono asilo in diversi paesi europei, modellando una geografia di città ospitanti e stabilendo così luoghi che offrivano l’asilo della libertà. Allo stesso tempo, nel 1793, la Costituzione montagnarda della Prima Repubblica incoraggiava la Francia a ‘dare asilo agli stranieri che sono stati banditi dalla loro patria per la causa della libertà’ (art. 120). Per la prima volta il diritto d’asilo fu ufficialmente concesso ai rifugiati stranieri perseguitati per motivi politici o religiosi. Si stabilì un diritto duraturo, ma anche la responsabilità di proteggere, come lo conosciamo oggi” (p. XV). Nel corso dei secoli, cambiò anche l’idea, che gli Stati hanno avuto dell’emigrazione e dell’immigrazione. La prima vista in genere con preoccupazione, perché riduceva la presenza di uomini, di forza lavoro, e di soldati, la seconda, come una opportunità, perché arricchiva di risorse “umane” una Nazione, hanno assunto significati differenti a seconda del periodo storico e delle opportunità e degli interessi degli Stati e delle loro élite. Nell’affascinante affresco che si offre al lettore, spiccano così i quadri anche paesaggistici e umani proposti da Luigi Mascilli Migliorini, relativi alle prime forme di mobilità, legate alle possibilità dell’uomo fino all’Ottocento, ai “mezzi fisici” della forza dei piedi o delle bestie da soma o dei cavalli. La prospettiva era quella del viandante o del mercante, che potevano percorrere trenta chilometri al giorno al massimo, e il cui orizzonte era sempre lo stesso, di pianure e di vallate più o meno uniformi, attraverso una libera circolazione, non controllata come è avvenuto in seguito attraverso le frontiere degli Stati nazionali. Oppure, Alessandro Bonvini analizza con efficacia la diaspora dell’Ottocento (cui fu protagonista, ricordiamolo, anche Francesco De Sanctis, insieme a Pasquale Stanislao Mancini). Toni Ricciardi si concentra sulle relazioni, sui “Patti” siglati tra le Nazioni europee (e non solo) e l’Italia subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Rievocando con efficacia il dibattito sull’articolo 1 e 10 della Costituzione, con protagonisti tra gli altri Aldo Moro, Amintore Fanfani e Palmiro Togliatti, nel decidere di definire la Repubblica democratica fondata “sul lavoro”, si voleva riconoscere a tutti il diritto al lavoro e alla propria autodeterminazione e indipendenza tanto per realizzare il proprio benessere ma anche per contribuire al progresso dell’Italia stessa.
Ma tale articolo fu smentito da subito, perché l’Italia non poteva assorbire la forza lavoro di una Nazione distrutta e in ginocchio dopo la tragedia bellica. E dunque iniziarono le “fughe” alla ricerca di una speranza di sopravvivenza, barattando uomini con le forniture di carbone (oggi le cose si ripropongono in modo diverso), per dare all’Italia l’energia necessaria alla propria ripresa.
Dunque, prevalse l’emigrazione sul diritto al lavoro. Come ricorda il grande Francesco Saverio Nitti, i contadini così abbandonavano le loro misere cose: “Lo spettacolo di queste emigrazioni in massa è dolorosissimo; quando non trovano a vendere le miserabili casupole, i disgraziati emigranti, le abbandonano, rimanendo l’uscio aperto e le chiavi appese al chiodo”. Ecco, forse non vi è immagine più chiara per descrivere la “fuga” dal Sud, di centocinquanta anni fa e quindi di tante epoche successive.