Emigrati, il legame indissolubile che unisce la Svizzera e l’Italia [Corriere del Ticino, 4 luglio 2022]

LA RICERCA / Toni Ricciardi, storico dell’Università di Ginevra, spiega perché i flussi migratori sono «paralleli alle trasformazioni del sistema capitalistico» – Il ruolo determinante giocato per anni dalla Confederazione, inspiegabilmente marginalizzata dalla grande narrazione dei media.

di Dario Campione

Emigranti, il legame indissolubile che unisce Svizzera e l’Italia, Cdt, 4 luglio 2022, p. 6.

«Le migrazioni sono probabilmente una delle chiavi interpretative, tra le più significative, per comprendere il lungo processo della storia della globalizzazione». La vicenda europea, a partire almeno dal Settecento e fino ai giorni nostri, segue l’intreccio di due cronologie: da un lato, il processo di avvicinamento e di costruzione dello spazio comune; dall’altro, la lunga e variegata storia della migrazione. E la Svizzera, inspiegabilmente «dimenticata dalla grande narrazione e dai media», è stata e continua a essere al centro di questo processo.

Toni Ricciardi insegna all’Università di Ginevra ed è codirettore della collana “Gegenwart und Geschichte/Présent et Histoire”. Da anni studia in profondità la storia del fenomeno migratorio, al quale ha dedicato numerosi saggi. In questi giorni è di nuovo in libreria con il primo dei quattro volumi (editi da Donzelli) in cui sarà racchiuso un ambizioso progetto di ricerca – da lui diretto – sulla “Storia dell’emigrazione italiana in Europa dalla Rivoluzione francese all’epoca COVID”.

La tesi da cui parte il lavoro di Ricciardi e degli studiosi che lo affiancano è chiara: «Pur essendo una scelta individuale, di fatto la migrazione è un’azione collettiva che cambia sempre più il paesaggio sociale, politico, economico e culturale del mondo. Un fait social total, in grado di rimodellare» i territori, oltre ovviamente ai singoli individui e alle comunità di riferimento.

Si può leggere e scandire la storia anche attraverso le migrazioni, e non soltanto mettendo in fila le guerre, i grandi eventi o gli avvenimenti istituzionali. «La nostra idea è di dare una gerarchia diversa alla ricostruzione dei fatti – dice Ricciardi – e spiegare, ad esempio, come e perché Paesi come la Svizzera e l’Italia siano stati cambiati in profondità dai massicci spostamenti di uomini e donne. Come e perché l’emigrazione cammini sul binario parallelo alle trasformazioni del sistema capitalistico».

I numeri

La Confederazione, scrive Ricciardi, «aveva costruito la sua intelaiatura normativa in materia di migrazione già a partire dalla fine degli anni Dieci» del Novecento ed è stata poi «la grande protagonista dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra, numericamente superata dalla Repubblica federale tedesca soltanto nel 1976 la Confederazione. Dal 1946 al 1948 – prima cioè della firma, il 22 giugno 1948, dell’accordo con il Governo di Roma – erano emigrati in Svizzera 260 mila italiani, quasi la metà di tutti gli espatri verso il continente europeo; percentuale che si mantenne stabile fino alla metà degli anni Cinquanta». Nel periodo 1946-55, gli espatri italiani totali furono 2.470.734 e 1.301.448 quelli diretti verso i Paesi europei: di questi, 635.306 furono diretti verso la Confederazione, il 26% del totale (e il 49% del totale degli espatri verso l’Europa).

«Troppo a lungo ci si è ostinati a ripetere il mito del grande esodo italiano verso l’America – dice lo storico dell’Università ginevrina – ma la verità è che si è trattato di un fenomeno durato soltanto una quindicina d’anni. Il grosso degli emigranti si è in realtà riversato in Europa. E la Svizzera, marginalizzata dalla grande narrazione e dai media a favore del Belgio o della Germania – per via di Marcinelle e della grande crescita dell’industria automobilistica – è stata per almeno trent’anni, dal 1946 al 1976, la grande attrattrice di migranti italiani».

Nella Confederazione c’era all’epoca una grande richiesta di manodopera, e il Paese era, dal punto di vista salariale, molto più competitivo di altri. «Vi furono assunzioni a catena grazie al lavoro dei “delegati” delle grandi imprese i quali reclutavano gli operai direttamente in Italia – racconta Ricciardi – La Monteforno di Bodio, la più grande fonderia ticinese, si riempì di sardi per gli stretti rapporti del direttore con l’isola. A Coira, dove si produceva l’amianto, una direttrice pugliese fece arrivare nei Grigioni centinaia di suoi corregionali».

L’argine al PCI

Nella prefazione al libro “Siamo italiani – Gespräche mit italienischen Gastarbeitern” (Siamo italiani – Colloqui con lavoratori immigrati italiani”), uscito nel 1965 a cura di Alexander J. Seiler, lo scrittore Max Frisch usò per la prima volta un’espressione destinata a riassumere in forma breve ma efficace, icastica, il senso di quella gigantesca “transumananza” (concedeteci il neologismo): «Cercavamo braccia, sono arrivati uomini». Con il loro carico di tradizioni, culture, convinzioni, modi di essere. Uomini che inevitabilmente finirono per cambiare l’una e l’altra parte del loro mondo: quella da cui fuggivano in cerca di futuro e quella nella quale approdavano. L’Italia, scrive ancora Ricciardi, portò a casa «Un doppio risultato: calmierare le crescenti tensioni sociali attraverso l’alleggerimento della disoccupazione e arginare la crescita del Partito Comunista. Sulla sponda opposta, il governo di Berna fu ben lieto di aiutare quello italiano “per non correre il rischio che il comunismo prendesse piede sulla lunga frontiera meridionale”».

La storia non insegna

Dopo aver scoperto la migrazione di massa con i grandi trafori, la Svizzera ha avuto un rapporto altalenante con i lavoratori provenienti dall’estero. E non è soltanto con la moderna globalizzazione che il fenomeno migratorio è diventato un tema politicamente divisivo. «Il “primanostrismo” è molto anteriore rispetto a James Schwarzembach o ai “Ratt” dell’UDC ticinese, risale quantomeno all’inizio del ‘900 – sottolinea ironicamente Ricciardi – quando aveva come obiettivo soprattutto i sudditi dell’Impero germanico. Ci sono locandine e manifesti che testimoniano l’avversione contro i tedeschi esplosa negli Anni ’10, con richiami a Guglielmo Tell e alle tradizioni elvetiche». È, insomma, storia antica. La quale, come spesso accade, non è riuscita a diventare magistra vitae.