19 Mag L’Europa e le migrazioni [Quotidiano del Sud, ed Campania], 18/05/2022, p. 14
Nel volume un’attenta analisi del fenomeno dalla Rivoluzione francese a Marcinelle
Ricciardi: un processo che è parte integrante del percorso di integrazione
Le migrazioni come chiave interpretativa per comprendere il lungo processo della storia della globalizzazione e al tempo stesso come sfida cruciale del percorso di integrazione europea. È l’idea da cui muove Toni Ricciardi nel volume da lui curato – il primo di una serie di 4 volumi che arriva fino all’epoca Covid, impreziosito dai saggi dello stesso Ricciardi, di Gian Carlo Perego, Stefano Luconi, Alessandro Bonvini, Luigi Mascilli Migliorini, Marisa Fois – “Storia dell’emigrazione italiana in Europa, dalla Rivoluzione francese a Marcinelle”, Donzelli. Ricciardi parte da un dato che è sotto gli occhi di tutti, paesi con un’antica esperienza emigratoria sono divenuti destinazioni di flussi migratori, anche se in molti casi non c’è mai stata una cesura netta ma convivono processi di mobilità nelle due direzioni. Processi che affondano le radici nella storia d’Europa. Poiché se l’era della migrazione di massa si afferma verso la metà del XIX secolo, fin dalla metà del ‘600 la migrazione rappresenterà un aspetto consolidato della vita sociale e della politica economica e giocherà un ruolo vitale nella modernizzazione e nel processo di industrializzazione del continente europeo. Lo sottolinea con forza Ricciardi “Il numero limitato di analisi storiche sull’impatto dell’immigrazione sulle società europee dal medioevo in poi ha permesso di continuare a negare il ruolo che l’altro migrante ha giocato nella costruzione dello Stato-nazione”. Sulla stessa linea Migliorini che individua nell’emigrazione una prima forma di modernità. Il volume dimostra, quindi, come le culture nazionali si siano a lungo rette su un paradosso. Si è cercato in tutti i modi di rafforzare il mito dell’omogeneità nazionale, dimenticando che la migrazione è una caratteristica permanente della storia, sottovalutando lo straordinario grado di mobilità e ricchezza dell’Europa mediterranea nei secoli. Centrale nell’ analisi il cambiamento di paradigma in tema di emigrazione, alimentata nel ‘500 e ‘600 dalle persecuzioni religiose, a cui seguiranno consistenti migrazioni di lavoratori. Se nel XVI e XVII secolo più di un milione di persone in Europa fuggiranno dalle guerre religiose legate alla Riforma e alla Controriforma, durante l’ancien regime gli stranieri cominceranno ad essere considerati come un capitale da far fruttare, tanto da ottenere la cittadinanza quando quel capitale sarà fruttato. Sarà, poi, la Rivoluzione francese a favorire le ondate di migrazioni con il diritto d’asilo per la prima volta ufficialmente concesso ai rifugiati per motivi politici.
Un volume, quello di Ricciardi, che non può non soffermarsi sulla diversa gestione delle politiche migratorie nel tempo. Scopriamo così che la Gran Bretagna sarà la prima ad allentare le restrizioni all’espatrio nel XIX secolo. L’espansione imperialistica europea imporrà una diversa visione della mobilità, vista come una soluzione ai problemi sociali a partire dalla sovrappopolazione. Da allora, gli Stati europei hanno alternato politiche che favorivano la restrizione o la promozione della migrazione, a seconda delle proprie necessità economiche e geopolitiche. A partire dagli anni Venti si affermerà, ad esempio, una linea rigorosa nella gestione dell’immigrazione da parte di Stati Uniti e altri paesi europei. Ma solo nella prima metà del XX secolo emergerà una consapevolezza del fenomeno con un diverso sguardo alla storia delle civiltà, in contrasto con la visione eurocentrica e unilaterale che aveva dominato fino ad allora. Se è vero, dunque, che il commercio di schiavi del XVIII secolo fu la più grande migrazione di massa forzata della storia, tra il 1851 e il 1914, invece, 41 milioni di europei si trasferirono volontariamente nelle Americhe e in Australia. Di questi emigranti, fino alla metà degli anni sessanta dell’Ottocento, quasi il 70% proveniva dal Regno Unito e il 20% dalla Germania, solo nel decennio successivo il flusso sarà affiancato e sostituito dalla grande diaspora italiana. Ed è interessante sottolineare che l’unico momento in cui prevalsero le destinazioni extra-europee furono i primi quindici anni del Novecento fino allo scoppio della Grande guerra. Il fenomeno dell’emigrazione crescerà, poi, notevolmente tra la fine della Seconda guerra mondiale e la crisi petrolifera del 1973, proporzionalmente allo sviluppo economico e industriale. Una crescita esponenziale della mobilità di capitali e merci che coinciderà anche con maggiori restrizioni alla mobilità umana, anche a causa di una xenofobia crescente. Un fenomeno quello dell’emigrazione che è ancora un’emergenza. Il dato preoccupante è che negli ultimi quindici anni le partenze dall’Italia hanno assunto dimensioni che superano in media le centomila unità l’anno, tanto che in occasione del quindicesimo Rapporto Italiani nel mondo della Fondazione Migrantes è stato certificato un incremento complessivo, dal 2006 al 2020, del 76,6%. La crescita di questi numeri è il risultato di una nuova mobilità verso l’Europa – in maniera minore verso gli altri continenti – e delle richieste di acquisizione di cittadinanza italiana, che in realtà significa acquisizione della cittadinanza europea. Una narrazione, quella del fenomeno migrazioni, che troverà un momento di cesura nella catastrofe di Marcinelle dell’8 agosto 1956. Sarà, poi, il Trattato di Roma del 1957, a sancire per la prima volta la libera circolazione e a segnare l’inizio di una nuova concezione del processo migratorio nello spazio europeo.