Un Sud diviso tra restanza ed emigrazione – Il Mattino, 16 maggio 2022, p. 11.

In due saggi l’analisi di un fenomeno che continua a impoverire le nostre terre: Teti parla di «ancoramento»e «spaesamento», Ricciardi cura il primo volume di una storia di partenze forzate dall’Italia verso l’Europa.

di Generoso Picone

«Di nuovo la valigia di cartone?», era l’interrogativo posto da Enrico Pugliese nel suo studio di qualche anno fa sulle modalità e le dimensioni che stava assumendo l’emigrazione italiana. Magari non più o non solo – con il bagaglio antico, ma con tablet, trolley e laurea specialistica. Rimane però l’entità di Quelli che se ne vanno era il titolo del saggio di Pugliese del 2018 per Il Mulino tale da far paventare alla Svimez un vero e proprio «tsunami demografico»: dal 2006 al 2020 si è registrato un incremento del 76,6 per cento dei trasferimenti dall’Italia al mondo e la previsione al 2065 è di una perdita di 5 milioni di abitanti soltanto nel Sud.

Messa così, la questione assume ulteriori caratteri di gravità tali da imporla ancora come un’emergenza sociale, economica, civile. Nella sua ciclicità delinea un interrogativo di fondo: se così è da secoli se non da millenni, se si tratta di un fenomeno di tanta lunga durata da rivelarsi endemico, si è sicuri che l’emigrazione non abbia bisogno di categorie interpretative diverse da quelle tradizionali? Che significa oggi emigrare? È opportuno considerare ancora questa scelta nei termini ottocenteschi-novecenteschi, cioè di separazione dai luoghi degli affetti e di svuotamento di un territorio infelice, e non invece come un momento della costante oscillazione dell’homo sapiens «sempre sospeso tra viaggio e sosta, appartenenza e sradicamento, necessità di spostarsi e desiderio di casa»? O, proiettandola su uno scenario globale, come «un’azione collettiva che cambia sempre più il paesaggio sociale, politico, economico e culturale del mondo, un fait social total in grado di rimodellare, nel nostro caso, il continente europeo»?
Le due definizioni, rispettivamente di un antropologo e di uno storico, segnano i punti convergenti degli impianti teorici consegnati da due testi che tornano assai utili a evitare la retorica d’occasione. Perché La restanza di Vito Teti (Einaudi, pagine. 158, euro 16) e il primo volume della Storia dell’emigrazione italiana in Europa. Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1789-1956) curato da Toni Ricciardi (Donzelli, pagine 240, euro 27, con contributi di Luigi Mascilli Migliorini, Alessandro Bonvini, Stefano Luconi, Gian Carlo Perego, Marisa Fois e dello stesso Ricciardi), pubblicati in una sintonia temporale che mostra la maturazione di diversi schemi d’approccio, da un lato si sforzano di abbandonare il campo concettuale dove l’emigrazione è semplicemente una iattura degli eventi e dall’altro disegnano un orizzonte avanzato per misurarsi davvero con i suoi effetti sul piano politico.
Teti, antropologo già presso l’università di Calabria e autore di approfonditi studi sulla letteratura e la mitografia dei luoghi, lo fa individuando un termine-chiave: la «restanza». Ricciardi, storico all’università di Ginevra, già nel passo iniziale di un’opera collettanea che toccherà i periodi Dal Trattato di Roma all’elezione del Parlamento europeo (1957-1979), Dalla generazione Erasmus al Trattato di Nizza (1987-2001) e Dall’euro al Covid-19 (2002-2022), coglie nel procedere dei decenni il manifestarsi progressivo di un tratto identitario: l’elemento costituente di una Repubblica democratica fondata sull’emigrazione.
Vito Teti spiega che per «restanza» intende «il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente». Ad affinare questo convincimento ha contribuito il tempo sospeso della pandemia, il periodo di lockdown trascorso nell’isolamento del suo paese di origine San Nicola da Crissa, nelle Serre vibonesi di Calabria, dove spesso aveva riflettuto sul senso di ogni partenza, di ogni fuga, di ogni erranza. Il termine «restanza» era stato introdotto nel lessico corrente dal rapporto del Censis del 2012 e Giuseppe De Rita aveva inteso nella crasi proprio tra restare ed erranza la volontà della società italiana al riposizionamento, che «non significa tirare a campare. Chi è riuscito a riposizionarsi è probabilmente sopravvissuto». Teti si ricollega a tale idea quando sostiene che «nella restanza sembra affermarsi, in modo più o meno marcato, una sorta di opposizione a una concezione urbanocentrica e nord-centrica, e non è un caso che questo concetto venga tematizzato inizialmente al Sud e nei piccoli borghi». Qui avverte «bisogna smetterla di raccontare favole sui paesi e sul restare. Chi tra i rimasti non vorrebbe fuggire?»: occorre, al contrario, cambiare sguardo e imparare a considerare montagna e zone interne non marginalità ma risorse, avviarsi lungo la strada del nuovo equilibrio che Felice Barbera e Antonio De Rossi hanno intitolato «metromontagna». Obiettivo di spessa grana politica.
Erranti e restanti sono facce dello stesso mondo e l’elaborazione di Ricciardi gira esattamente intorno il dato permanente delle partenze e degli arrivi: il paese che conserva la sua centralità è avvolto in una condizione mentale, in fondo ricorda, collocandosi sulla linea di Guido Dorso, Manlio Rossi-Doria e Francesco Compagna – il Mezzogiorno ha sostenuto la sua modernizzazione anche e soprattutto sulle rimesse degli emigrati e allora, definita la sua identità e disciplinata giuridicamente la sua libertà, la questione oggi è quella della tutela anch’essa – politica da dare al fenomeno. Sullo sfondo c’è la tragedia dell’8 agosto del 1956 nella miniera di Marcinelle, dei lavoratori italiani emigrati in cambio del carbone. Davanti una integrazione ancora da completare.