11 Ott L’Afghanistan e l’ipocrisia dell’Occidente
di Toni Ricciardi [Irpinitaly 04/2021, pp. 14-15]
Quando nel 1992 Francis Fukuyama diede alle stampe il suo “La fine della storia e l’ultimo uomo”, molti aderirono a questa visione, immaginando che la caduta del muro di Berlino nel 1989 e lo sgretolarsi qualche anno dopo dell’Unione Sovietica avessero prodotto un nuovo ordine mondiale. Ci fu anche chi immaginò – come spesso accade quando i processi geopolitici subiscono repentine accelerazioni – che si fosse raggiunta la consacrazione del primato mondiale degli Stati Uniti e del modello di società dei consumi che avevano esportato e imposto in gran parte del vecchio continente, all’indomani della Seconda guerra mondiale e nel resto del mondo. Infine, ci furono quelli che più saggiamente avanzarono la tesi di un mondo multipolare, ovvero, nel quale non esistevano più due superpotenze contrapposte, bensì più attori in causa, con la preminenza, non si sapeva per quanto tempo ancora, degli americani.
In realtà, la storia dell’umanità ci insegna che quello che oggi è centro, con il passare del tempo, quasi fosse un processo inevitabile, diverrà prima o poi periferia. Questa è la lezione di Immanuel Wallerstein. D’altronde, nel 1200 Venezia, controllando lo spazio mediterraneo, rappresentò il punto centrale della geopolitica del tempo. Poi toccò alla Francia di Luigi XIV, che da subito ebbe negli inglesi il suo contraltare, tanto da farli divenire, con il passare dei secoli e dopo la parentesi napoleonica, la superpotenza mondiale fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.
La storia dell’impero britannico è riemersa in queste settimane nelle quali abbiamo assistito attoniti alle vicende afgane. Anche i sudditi di sua maestà, nel bel mezzo della stagione d’oro che li consacrò come superpotenza mondiale, a partire dal 1870, si dovettero scontrare con gli afgani in ben due conflitti (1839-1842; 1878-1880). In entrambi i casi, pur conservando un controllo indiretto sul territorio, i risultati non furono dei più esaltanti per gli inglesi, come non lo sono stati per i sovietici prima e gli americani poi. Tuttavia, in questo susseguirsi di insuccessi, se analizziamo la faccenda dal punto di vista europeo o, se vogliamo, occidentale, non assistiamo che al riproporsi di uno schema già visto e che nel nostro caso, quello degli americani, facciamo fatica a voler vedere e accettare: gli Stati Uniti non hanno più l’intenzione di farsi carico degli equilibri del mondo. Certo, è facile l’obiezione di chi asserisce che si sono fatti carico dei disequilibri del mondo, allora tutt’al più, lo schema da gioco sta cambiando.
Se la Prima guerra mondiale consacrò la fine definitiva dell’egemonia mondiale britannica, tanto che il contributo degli Stati Uniti (entrati in guerra nel 1917) fu determinante; il crollo degli imperi, asburgico, ottomano, solo per citare i più importanti, segnò la fine di un modello geopolitico che vedeva la Gran Bretagna al centro di un mondo non più in grado di guidare e nel quale faticava ad incidere. Questo vuoto fu riempito dai totalitarismi, e ancora una volta, solo l’ingresso degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale spostò gli equilibri di una tragedia. Oggi, al netto di quanto successo dopo il 1989, ci ritroviamo in un mondo disegnato all’indomani del 1945. Certo, la decolonizzazione rappresentò l’ultimo sospiro per le ambizioni colonizzatrici degli europei a favore, anche in questo caso, degli americani. Questi ultimi in maniera disinvolta, a volte più cruenta a volte meno, si sono sobbarcati le sorti degli equilibri mondiali. Rovesciando sia le democrazie come le dittature, e la storia dell’America Latina ce lo dovrebbe ricordare. Siamo inclini a ricordare l’11 settembre 2001, ma fino a qualche anno fa ricordavamo l’11 settembre 1973 e i fatti cileni.
In queste settimane, in molti hanno sottolineato come i talebani fossero uno dei tanti prodotti “collaterali” degli americani, che prima li hanno usati contro i sovietici, poi volevano disfarsene senza riuscirci. Quando dopo la tragedia delle torri gemelle si bombardarono e occuparono prima l’Iraq e poi l’Afghanistan, da più parti si levò il grido: “Non si esporta la democrazia con le armi”. Finita questa fase: “Non si può lasciare solo il popolo afgano e soprattutto non si possono lasciare indifese le donne”.
Due affermazioni, a distanza di 20 anni, che mostrano probabilmente la più grande contraddizione di tutta questa storia.
Intanto, la democrazia è un “prodotto” occidentale, inteso in senso lato, non è dappertutto l’unico modello possibile o utilizzato. Dal nostro punto di vista, ovvero, quello degli europei, degli occidentali si sarebbe detto una volta, appare come l’unica soluzione possibile di governo, anche se la nostra stessa storia ci dice il contrario. Parimenti, vogliamo i diritti per tutti e per tutte, ma riteniamo non sia corretto imporli. Abbiamo unificato un paese, sotto l’egida delle due superpotenze del tempo (Francia e soprattutto Inghilterra), ma l’abbiamo narrato come Risorgimento. Ci siamo liberati, appunto liberati, dal nazifascismo, grazie alle armi e ad eserciti stranieri che ci hanno finanziato e supportato, per poi chiamarla Resistenza. Invochiamo una risoluzione Onu, e quindi il modello geopolitico figlio degli equilibri post-Seconda guerra mondiale, ma allo stesso tempo mettiamo in discussione il patto atlantico. E ancora, per chi è credente, ogni domenica partecipiamo alla santa messa e capita di pregare ascoltando l’Efesini 5:22-24, che recita:
“Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti come al Signore, poiché il marito è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, ed egli stesso è Salvatore del corpo. Perciò come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa”.
Eppure, una volta superato il soglio di San Pietro, ci scandalizziamo e commoviamo per quanto accade alle donne afgane. In realtà, probabilmente facciamo fatica a voler accettare che, come il Regno Unito dopo la Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non hanno più la forza e la voglia di gestire gli equilibri sempre più precari lasciando campo libero ad altri attori mondiali (Cina e Russia). Come fatichiamo ad ammettere che riteniamo il nostro modello di società il più evoluto e democraticamente consono alla convivenza umana e alla salvaguardia dei diritti e che, pur di rinfrancare questa nostra convinzione, siamo disposti all’utilizzo di qualsiasi guerra possibile, solo che non lo possiamo dire né pensare. E allora come si fa?
Continuiamo la lotta per la democrazia delle donne afgane con le sole Ong, con Emergency, Medici senza frontiere e altri? Oppure, investiamo miliardi in istruzione e cultura invece che in armi per addestrare un fantomatico esercito locale? A chi diamo questi soldi? Chi avrà la sensibilità giusta per gestirli correttamente, i talebani?
Probabilmente dobbiamo ammettere, alla fine dei conti, il nostro fallimento nel non essere riusciti a fare nascere un sentimento popolare, tra gli afgani, di affrancamento e opposizione ai talebani. Accadrà prima o poi, oppure dovremmo assistere a nuovi padroni esterni che tratteranno con i talebani come abbiamo fatto noi occidentali in passato?