Raccontare oggi il sisma [Mino Mastromarino, Quotidiano del Sud]

Nel volume di Ricciardi, Picone e Fiorentino passato e futuro

di Mino Mastromarino, Il Quotidiano del Sud, 29 novembre 2020.

Mino Mastromarino – Il Quotidiano del Sud, 29 novembre 2020, p. 28.

Con felice tempismo è appena uscito il libro (a sei mani !) di Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino, intitolato “Il terremoto dell’Irpinia”, per i tipi della Donzelli. È un saggio di storia. Il primo, sul Sisma del Novembre 1980. Infatti, gli autori si sono sforzati anzitutto di comprendere e far comprendere il prima e il dopo della catastrofe.
La corrispondenza del contenuto dell’opera all’ evenemenziale sottotitolo ‘cronaca, storia e memoria dell’evento più catastrofico dell’Italia repubblicana’ è dimostrazione del rigore dell’analisi ivi sviluppata con metodo multiangolare. La divisione in tre capitoli, uno per ciascuno dei tre autori, in uno al prologo ed all’epilogo unitari che li  incorniciano, è informata ad una evidente esigenza di organicità che sembra inizialmente tradursi nella esposizione di  tesi condivise, ma che lascia poi il campo ad una molteplicità di divergenti conclusioni interrogative. E, poiché crediamo a quell’idea per cui ogni libro appartiene per una metà all’autore e per l’altra metà al lettore, azzardiamo un’impostazione critica tripartita con criterio filosofico.

Bisogna riprendere il concetto del ‘tempo debito’.

La prima parte ‘ Storia e storie di un territorio tra migrazione e terremoti ‘ si può definire epistemologica. Invero, essa costituisce un autentico cambio di paradigma, un acquisto per sempre o, più prosaicamente, un concreto passo in avanti nella conoscenza storica dell’Irpinia, raggiunto mediante il solido strumento dei dati statistici sulle migrazioni interne ed esterne, sullo spopolamento e sul tasso di incidenza demografica della vecchiaia della provincia di Avellino. L’ancoraggio della ricerca al prioritario criterio dei flussi migratori dall’epoca post-unitaria ad oggi   autorizza a derubricare il terremoto dell’80 da causa o concausa determinante ad accadimento  solo  acceleratore dello spopolamento e dell’arretratezza, e quindi della marginalità della nostra terra. E consente di sottrarsi alla trita e improduttiva gabbia discorsiva a cui si sono ridotte ormai- almeno da diversi decenni – sia la questione meridionale che quella detta ‘settentrionale’. Tanto è vero che il dilemma tra restare o partire ha assillato costantemente la popolazione irpina, sin dal periodo postunitario; non è certo un fenomeno sorto negli anni Ottanta. La ineluttabilità del dissidio è stata fortemente denunciata dalla generazione postsismica attraverso la musica dei Molotov e degli Zeketam e la social community di Irpinia Paranoica di Luigi Capone: “Zekitiare – si specifica nel testo – non fa riferimento solo al movimento ritmico del tamburo, strumento essenziale per la tarantella montemaranese, bensì in chiave storica alla scossa del 23 novembre 1980”. Ricciardi sottolinea acutamente in proposito come «le vicende politiche della ricostruzione abbiano occupato tutto lo spazio della tragedia stessa generata dal Terremoto… e prevarrà più la legittima fame di modernità che la voglia di ricostruire un tessuto sociale ed economico su basi del tutto nuove» (pagg.28-29);  non prima ( a pag. 23 ) di aver  lasciato cadere la incidentale esemplificazione secondo cui «il 23 novembre 1980 crollarono palazzi che sarebbero stati costruiti, almeno sulla carta, rispettando le norme antisismiche ..mentre restarono in piedi case contadine che non rispettavano tali norme». Invero, questi sono fatti storici non secondari perché idonei a interrompere ogni nesso di causalità tra catastrofe naturale e mancato sviluppo. È vero che il terremoto è trascurato, se non ignorato, dalla Grande Storia. E Ricciardi fa bene a lamentarsene ed a rivendicare la necessità di una maggiore sensibilità al tema; e però, non tiene conto della natura ideologica, quasi ontologica, di tale renitenza, derivante dalla struttura della razionalità occidentale fondata sul rapporto causa-effetto. Il terremoto, quale evento naturale e come tale imprevedibile, sfugge al controllo razionale dell’Uomo e come tale non merita di entrare da protagonista nella Storia, al cui centro si situa l’evento-guerra che  è, infatti e al contrario, interamente riconducibile alla volontà degli uomini.
Pregevole è il recupero alla indagine storica di un ‘ topos’ antropologico come la memoria collettiva degli eventi catastrofici. Effettivamente, è mancato il processo di elaborazione e di sussunzione nella cosiddetta ‘memoria collettiva’ del sisma ’80, essendosi il dibattito pubblico appiattito sulle responsabilità del presunto o reale fallimento della ricostruzione, e circoscritto ai sempre più stanchi e autoreferenziali anniversari annuali. Fra i tanti riferimenti bibliografici, vale evidenziare il magistrale e politicamente scorretto studio sulla genesi delle tradizioni ‘L’invenzione della tradizione’ realizzato a cura di E. J. Hobsbawm e T. Ranger, secondo cui la  gran parte delle ‘tradizioni’ non solo non è antica ma è anche e soprattutto frutto di ‘invenzione’: tanto al fine di alimentare costantemente l’immaginario simbolico delle comunità.

La seconda parte ‘Una provincia tra stereotipi e trauma: autorappresentazione di un territorio’ è, invece, dichiaratamente estetica.
Lapidario ma efficace è il tragico j’accuse: «…oggi, quarant’anni dopo, , si ricorda la sequela di sperperi, sprechi e comparaggi e non l’apocalisse che seppellì 2914 persone» ( pag.108 ).
Si passa da una descrizione, non meramente cronachistica, dei paesi del cratere nei giorni immediatamente successivi allo sconvolgimento tellurico; alla metabolizzazione elitaria del trauma operata tramite le riflessioni di eminenti intellettuali e scrittori. Uno degli spunti più vividi del capitolo incrocia il problema della ‘bruttezza’ del NUOVO RICOSTRUITO, anche perché è l’unico spazio -appunto! –  in cui è possibile istituire un proficuo confronto tra il prima e il dopo della catastrofe. Inevitabile ma doverosa la citazione di Conza della Campania, e dell’infausto destino di orrore urbanistico-architettonico cui questo meraviglioso paese è stato condannato.  Va apprezzato il coraggio di Picone, il quale, pur nella consapevolezza di esporsi al corrivo semplicismo contemporaneo, impone all’attenzione del lettore la visione o la riproposizione di uno spettacolo ‘mortifero e raggelante’ nella speranza forse che questi  maturi un sentimento catartico. Dalle ‘prodezze’ dell’Architettura al paesaggio, alla paesologia.
Picone si sente in dovere, condivisibilmente, di richiamare l’attivismo mediatico  e le iniziative  di Franco Arminio, riportandone l’autorevole investitura culturale ottenuta da Roberto Saviano e Alberto Asor Rosa. La correlazione virtuosa degli scritti di Arminio con la salvaguardia e la valorizzazione del paesaggio e dei paesi irpini non convince però del tutto il Nostro Autore che sembra imputare al ‘Paesologo’ «il rischio di cristallizzare il trauma in un’elegia dell’infelicità che illumina la scena di un territorio avvilito, spento e morente che però si crogiola in questa condizione e rappresentazione di sé» (pag. 123).

Se il senso è quello di non assecondare forme di vittimismo e masochismo pur esteticamente ammantate, urgevano ( e urgono ) maggiori coraggio e precisione critici. L’analisi delle narrazioni del sisma ’80 soffre anche di alcune, non irrimediabili, lacune. Ad esempio, rimanendo in ambito domestico, non è mai citato lo scrittore Aldo de Francesco che pure ha scritto molti libri sull’ argomento e in preponderante parte incentrati sui paesi e le tradizioni irpini.

Il terzo capitolo ‘L’opera di ricostruzione tra impegno civile e luoghi comuni ‘ è, infine, etico. In particolare, esso è chiaramente ispirato all’Etica delle Istituzioni che sta in mezzo all’Etica della Responsabilità e all’Etica della Convinzione. L’esame dei tratti salienti della legislazione dell’emergenza tellurica è condotto da Fiorentino in maniera ineccepibile, e con la encomiabile attenzione a scansare i tecnicismi e le asperità della materia. A tal punto che non si riesce facilmente a capire se la ravvisata armonia dell’impianto normativo della legge 219/81 e ss. sia stata il reale portato di una sapiente tecnica legiferativa oppure la silloge interpretativa di un fine giurista. La esauriente ricognizione delle politiche pubbliche impostate è integrata da una riflessione puntuale e irrecusabile circa il nodo della loro efficacia e circa il più ampio tema dei possibili rimedi all’ endemico disagio delle aree interne che funge da ‘leitmotiv’ dell’intero libro.
Dicevamo del carattere etico del terzo contributo. E infatti Fiorentino espone con piglio quasi orale : «Il sisma avrebbe dovuto essere    l’occasione per avviare un programma di sviluppo economico e produttivo del territorio, ma a tale visione non ha corrisposto sempre una strategia coerente di programmazione delle risorse stanziate» (pag. 150); per concludere: «L’insediamento di nuove strutture produttive, secondo il disegno lo ‘dell’industria in montagna’, ha portato  a un’iniziale crescita occupazionale, grazie ai contributi statali a fondo perduto, tuttavia, in un arco di tempo  sostanzialmente breve, la chiusura repentina  di queste nuove attività, anche in ragione del fatto che la dipendenza dai sussidi pubblici  non ne consentiva un’evoluzione propria indipendente ed economicamente sostenibile, ha generato un nuovo aumento del tasso di disoccupazione». Perciò: «Un altro errore di valutazione è stato quello di pensare che la crescita economica del territorio potesse essere realizzata solo attraverso lo sviluppo delle attività industriali, peraltro estranee alla cultura dei luoghi».

Il dover essere che l’autore indica con passione civica ai lettori non è quello di ricercare le responsabilità di allora, bensì di evitare gli stessi errori oggi e domani. Ovviamente, se questi errori non sono e non saranno oggetto di pacata discussione e acquisizione, da parte delle generazioni succedutesi nel quarantennio trascorso e di quelle a venire, la condizione di marginalità diventerà strutturale. Comunque, non è lecito affrontare un saggio così denso, sorvolando sul registro stilistico adottato per scriverlo. La prismaticità dell’analisi e l’originalità di alcune soluzioni proposte postulavano un vocabolario, almeno parzialmente, nuovo, che tuttavia sembra di cogliersi solo ‘in nuce’.

Il libro ha un ritmo schiettamente antiretorico, ma non è riuscito a liberarsi completamente da espressioni di maniera. Rispettoso dell’obbligo di citazione delle fonti e immune da incresciose omissioni, l’esercizio saggistico risulta comunque appesantito da eccesso di note e di rimandi bibliografici. Ogni vero cambiamento si misura e si riconosce dal tasso di rinnovamento del lessico, stante che i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo.
Il meritorio abbandono delle più che usurate categorie meridionalistiche o anti-meridionalistiche non è stato accompagnato dalla definitiva espunzione di vecchi arnesi lessicali o di accrocchi semantici come: crescita sostenibile, identità perduta del territorio, lo sviluppo turistico; sviluppo del territorio; classe dirigente; i vuoti e i pieni; territori del margine; estrazione di valore dal potenziale culturale. Malgrado la trama sempre ben sorvegliata, l’insidia della vacuità lessicale può rivelarsi nell’adesione entusiastica a concetti astratti pur provenienti dalla ‘Terra dell’osso’: «senza sviluppo non vi può essere progresso e il cambiamento che è avvenuto attorno a noi e dentro di noi deve tradursi nei fatti in un reale processo di sviluppo economico che è ormai maturo e possibile». Ovvero in frasi come questa: «La sensazione è che Rumiz attraversi paesi derubati dell’anima».

Il libro reclama una lettura urgente e profonda, possibile e auspicabile solo e soprattutto dopo che è calato il silenzio sulle insulse e sterili  parate celebrative da ‘quarantennite’. Non tanto e non solo per le ragioni sopra articolate, quanto perché i tre Chierici che lo hanno redatto non hanno tradito la loro missione; perché è un libro straordinariamente attuale e fecondo per l’intelligenza del futuro dell’Irpinia; comunque perché, ripristinando la centralità della ‘consecutio temporis’, è riuscito a trascendere abilmente l’ evento assunto a suo unico oggetto, facendone un’occasione per affrontare altre più stringenti questioni e generando così un potente dispositivo di contrasto alla perniciosa tirannia del  presente.