Quando la terra tremò dopo quarant’anni la ferita è ancora aperta [laRepubblica, Napoli]

di Pasquale Raicaldo, la Repubblica – Napoli, 19 novembre 2020.

Pasquale Raicaldo – laRepubblica (ed. Napoli), 19 novembre 2020, p. 13.

Solo lo studio del passato, ha scritto lo storico Marc Bloch, è in grado di offrire il necessario senso del cambiamento. L’eco delle urla e il boato, 90 secondi che distrussero l’Irpinia, la catastrofe e le contraddizioni della ricostruzione, i riflettori d’Italia sul Mezzogiorno. «Spettacoli che mai dimenticherò: interi paesi rasi al suolo, la disperazione dei sopravvissuti», sintetizzò Sandro Pertini, la voce rotta dell’emozione.
Quarant’anni dopo, il terremoto del 1980 rivive nelle foto in bianco e nero della devastazione – tremila morti, novemila feriti, oltre trecentomila senzatetto – e nelle testimonianze di chi neanche pensava di potersi rialzare. Dieci gradi della scala Mercalli, devastata un’area grande quanto il Belgio. Colpiti 687 comuni, 542 dei quali in Campania. 37 definiti “disastrati”. Una quotidianità stravolta per 6 milioni di persone. Catastrofe epocale.

Alla vigilia del 23 novembre, che segna un anniversario tondo suggerendo nuove riflessioni – il filo della memoria che si riannoda, ancora una volta (dimenticare è impossibile, lo sanno tutti) – l’Irpinia sfoglia le pagine della sua grande storia: del resto la storia – scriveva Voltaire – non è che il quadro dei delitti e delle disgrazie. La pandemia ridimensiona le celebrazioni, messe di commemorazione dei defunti nelle piccole chiese testimoni di un passato che qui è identità, non un fardello di cui disfarsi. Quarant’anni non sono pochi. Anzi, sono un periodo ben sufficiente per «comprendere quanto accaduto, grazie alla distanza che il tempo ha sancito dalla contingenza politica sociale e cogliere il significato profondo della tragedia e il segno impresso nella storia d’Italia», obiettivi che animano Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino – uno storico, un giornalista e un giurista – autori de “Il terremoto dell’Irpinia”, il saggio edito da Donzelli che oggi, alle 17.30, sarà presentato in diretta streaming dall’Istituto Italiano per gli Studi Filiosofici, con la partecipazione di Aldo Cennamo, Gianni Festa, Alessandro Dal Piaz (evento fruibile sul canale Youtube dell’Istituto e sulla piattaforma Zoom).

L’emergenza, la ricostruzione, lo sviluppo. I paradossi, l’Irpiniagate, la questione meridionale, i soldi spesi (male) e la burocrazia. L’impegno civile, anche. Tante storie si annidano tra le pieghe dell’evento più catastrofico dell’Italia repubblicana. Perché, annota Fiorentino, «gli strumenti legislativi non sono risultati sempre adeguati alla gravità dell’intervento straordinario». Di più: gli oltre 60 mila miliardi di lire spesi (un quarto dei quali in parcelle tecniche) hanno «consacrato questo evento e la sua gestione come lo sperpero di risorse pubbliche e private più consistente della recente storia d’Italia». Certo, se oggi il ricordo resta così vivido è senz’altro perché – lo dice l’architetto Giovanni Pietro Nimis – «non ci sono catastrofi che si dimentichino più velocemente del terremoto quando la ricostruzione si compie». Raramente, in Italia, come raccontano anche L’Aquila, Amatrice, Casamicciola. “Il terremoto dell’Irpinia” è anche una storia di profezie («Adesso è il momento della solidarietà nazionale – scrisse Scalfari – ma passerà presto, mentre gli effetti economici, politici e morali – non passeranno») e di cliché («Ci viene incontro in forma di gruppo di uomini con la scoppola e di donne in nero, il coro di questa tragedia paesana», raccontò Moravia), tasselli che compongono – con le voci di Paolo Rumiz e Vezio De Lucia, Franco Arminio e tanti altri – un mosaico di testimonianze. Gli effetti a lungo termine, poi: lo spopolamento dell’Irpinia (meno 2000 persone all’anno, in media) e i tentativi di rimozione, scrivono gli autori, «di chi dovrebbe garantire condizioni di sicurezza e approntare regole per evitare che alle distruzioni e ai lutti seguano interminabili fasi di precarietà e indigenza». Perché «la memoria istituzionale dei terremoti dovrebbe – avrebbe dovuto – elaborare le esperienze e attrezzare un modello, non constatare i buchi neri che costringono a ricominciare da zero a ogni devastazione avvenuta».

Quarant’anni dopo, ecco perché quel terremoto è (ancora) una ferita aperta. Malgrado le storie di resilienza, parola nuova e abusata in tempi di Covid, ma che sintetizza le vicende di chi ha saputo rimboccarsi le maniche. Rosanna Repole, la prima sindaca dell’alta Irpinia, a Sant’Angelo dei Lombardi. «Avevo 30 anni, divenni sindaco sotto una tenda. – avrebbe raccontato – Erano tutti morti, scelsero la figlia del Generale. Se avessi ragionato, sarei scappata il più lontano possibile. Ma non c’era spazio se non per dire sì: ne è valsa la pena». E ancora, il Cinema Nuovo di Lioni che crollò quel 23 novembre per riaprire due anni dopo, in un prefabbricato, e trasformarsi, il 23 novembre del 2005, in un multisala, «uno dei luoghi in cui si coltiva ancora il sogno di quanto poteva essere e non è stato. E che forse, chissà, un giorno potrà essere».