16 Nov Memoria e contronarrazione: Ricciardi, Picone e Fiorentino rileggono il terremoto dell’Irpinia
di Domenico Bonaventura, il Riformista 16 novembre 2020
«Non c’è definizione più fuorviante di quella sui ‘paesi presepe’ causati dal sisma».
Leonardo Sciascia deplorava l’utilizzo di questa espressione per definire l’area del cratere.
Nel dicembre del 1980, a macerie ancora fumanti, in un intervento su Il Mattino di Napoli la giudicò «una delle espressioni più retoriche e mistificanti che siano venute fuori da questa tragedia del terremoto».
Duemilanovecentoquattordici vittime, quasi novemila feriti e duecentottantamila sfollati. Sono numeri che si sarebbero potuti evitare? È questa la domanda di partenza da cui si sviluppa «Il terremoto dell’Irpinia» (Donzelli Editore), scritto da Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino. E inoltre, è possibile sottostare ancora alla narrazione imperante che parla di terremoto e ricostruzione unicamente come malaffare e camorra?
«Un evento come questo va storicizzato», spiega Toni Ricciardi. «A quarant’anni dalla più grande catastrofe della storia repubblicana, è ora di riannodare i fili della memoria e costruirne una collettiva: ognuno ha i propri ricordi, che spesso sono tramandati. Ma è arrivato il momento di fare un bilancio serio: perciò risulta stucchevole, fastidiosa e fuori luogo l’equazione ‘terremoto uguale camorra e malaffare’. Questo è soltanto un aspetto, ma di certo non è l’unico, soprattutto se ci soffermiamo sull’area del cratere», afferma Ricciardi, radici irpine di Castelfranci, storico delle migrazioni presso l’Université de Genève e componente del comitato scientifico del Rapporto Italiani nel Mondo.
Nel libro, Ricciardi analizza la situazione della provincia di Avellino partendo dall’Unità d’Italia. Dal 1861 al 1980, su 34 catastrofi, ben 4 sono quelle che sconvolgono l’Irpinia. Ecco che torna la domanda iniziale: la devastazione del 23 novembre 1980 si poteva evitare? «Ci si è posti molto poco questa domanda», spiega ancora Ricciardi. «Per poter rispondere bisogna operare una contestualizzazione storica. Com’era l’Italia degli anni ’70? In che modo si costruiva? Si tratta dell’ultimo decennio di ingente spesa pubblica, e il terremoto arriva in uno dei territori più fragili e più arretrati non d’Italia, ma d’Europa, che dal 1861 al 1980 aveva perso il 33,5% della sua popolazione». Il fenomeno migratorio, dunque, si lega a doppio filo con quello del terremoto, che sostanzialmente è un giro di boa: la fuga si registra prima e, fatta eccezione per gli anni ’80, si registra anche dopo».
Naturalmente, lo scritto non può esimersi dall’incrociare il tema della ricostruzione, dei fondi a pioggia e degli sprechi. Generoso Picone, giornalista e scrittore avellinese, già capo della redazione de Il Mattino di Avellino e in uscita, per Mondadori, con «Paesaggio con rovine», analizza la narrazione giornalistica di prima e dopo il terremoto. «La rappresentazione del dopo – spiega – diventa il vero fatto. Nell’immaginario collettivo, questo evento devastante si trasforma da grande tragedia a scandalo. Da momento iniziale di unità e solidarietà a Irpiniagate e Terremotopoli».
«A questo concorrono tre fattori: il clima politico nazionale, innanzitutto. Alla vigilia di Mani Pulite, utilizzando questo dramma si immaginò di colpire una classe politica che in ogni caso si era fatta garante del territorio. Inoltre, cede il sentimento della grande solidarietà e si palesa nuovamente quel pregiudizio antimeridionale che in Italia fa capolino ciclicamente. Torna prepotente e favorisce, tra l’altro, la nascita e l’affermazione della Lega come partito nazionale. Il problema, però – prosegue Picone -, è che la polemica politica sull’Irpiniagate ha uniformato tutto il territorio irpino a grande terreno di scandalo, senza aiutare a specificare. È un fatto storico che ci siano state ruberie e infiltrazioni camorristiche, ma generalizzare vuol dire non capire. Perché va detto che ci sono stati non solo furbi meridionali, ma anche furbi italiani. C’è un concorso di colpa, ma va approfondito, senza fermarsi al ‘tutti ladri, nessuno ladro’».
Un concetto, quest’ultimo, che porta Luigi Fiorentino a rivalutare le modalità di gestione del post-terremoto. «Nel libro opero un excursus di come le istituzioni hanno affrontato il tema della ricostruzione», spiega Fiorentino, irpino anch’egli, Capo di Gabinetto presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, docente di Sociologia dell’Organizzazione presso La Sapienza di Roma e presidente del prestigioso Centro di Ricerca «Guido Dorso».
«Oggi – prosegue – vedo con occhi diversi l’esperienza della 219/81», la legge che prevedeva interventi in favore delle popolazioni colpite dal disastro del sisma e che poi, per l’utilizzo smodato che se n’è fatto, è assurta un po’ a simbolo dello spreco e della narrazione su esso imperniata. Una narrazione, dunque, che andrebbe rivista e modificata anche sul piano legislativo, che è quello che Fiorentino analizza. «In un primo momento vedevo solo le ombre di questo provvedimento. Ma dopo aver analizzato quanto accaduto con la ricostruzione a seguito di altri terremoti e come si è risposto, si può dire che il post-terremoto in Irpinia è considerabile un modello, perché fa perno sul coinvolgimento concreto di privati ed enti locali».
Il libro, che si conclude con un’appendice sulla evoluzione/involuzione demografica di tutti i 118 comuni della provincia di Avellino, lascia un pensiero molto chiaro. L’Italia non può mettere da parte tragedie come il terremoto. Non può permettersi questo lusso. Siamo un territorio ad alto rischio sismico, e se i terremoti non si possono prevedere, con misure votate alla sicurezza si può cercare almeno di contenerne gli effetti.