
05 Nov L’Irpinia 40 anni dopo: un terremoto anche politico [Repubblica, 5.11.20 – di Concetto Vecchio]
L’Irpinia 40 anni dopo: un terremoto anche politico
Un libro di Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino ricostruisce la più grande catastrofe dell’Italia repubblicana: il sisma che sconvolse il Mezzogiorno nel novembre 1980 fece esplodere la questione settentrionale favorendo l’affermarsi della Lega.
di Concetto Vecchio [la Repubblica, 5 novembre 2020]
Sant’Angelo dei Lombardi, mattina del 25 novembre 1980. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini è rannicchiato in un’auto nera, le mascelle serrate, gli occhi fissano il vuoto. Giovannino Russo e Corrado Stajano, inviati sui luoghi del disastro, chiedono a un alto funzionario del Quirinale: “Che dice il presidente?”. E lui: “E’ sconvolto. Siamo senza parole”.
Sono passati quarant’anni dal terremoto in Irpinia, e ogni italiano che era nell’età della ragione serba nel cuore la sua immagine: le dirette televisive, il vecchio presidente con la pipa che tuona contro i ritardi e fa rimuovere il prefetto, paesi come presepi sepolti sotto cumuli di rovine imbiancate dalla neve, donne con gli scialli in fila per i pasti, un’Italia antica e lontana che ci muove a compassione.
Il terremoto ha ferito a morte il Mezzogiorno.

Archivio di “la Repubblica”
Il 23 novembre è una domenica. Rai Due sta trasmettendo il secondo tempo della partita del giorno della serie A in differita, alle 19,34 un boato squarcia la quiete, la terra trema, e sono novanta secondi che sembrano non finire mai. Decimo grado della scala Mercalli. L’istituto di sismologia di Belgrado calcola che si è liberata una quantità di energia pari allo scoppio di 35milioni di tonnellate di esplosivo. Il sisma sconvolge tre regioni: Campania, Puglia e Basilicata, un’area di sei milioni di abitanti. I morti sono 2914. I feriti novemila. I senzatetto trecentomila. A Sant’Angelo dei Lombardi, un paese di 5170 abitanti, muoiono in 482. Il terremoto ha ucciso il sindaco e molti consiglieri comunali. L’ospedale, inaugurato nel novembre del 1979, e un intero condominio di cinque piani si sono sbriciolati come una pasta di mandorla rinsecchita. Hanno retto le case contadine e sono implose le palazzine e i villini della speculazione edilizia.
In occasione del quarantennale esce ora Il terremoto dell’Irpinia. Cronaca, storia e memoria dell’evento più catastrofico dell’Italia repubblicana (Donzelli). L’hanno scritto Toni Ricciardi, storico delle migrazioni, Generoso Picone, firma del Mattino, e Luigi Fiorentino, attuale capo di gabinetto del ministro della Pubblica istruzione. Sono tutti avellinesi, e hanno memoria diretta della tragedia, e di quel che ne seguì. Una minuziosa ricostruzione dei fatti.
Come spesso accade nelle disgrazie italiane la vicenda del terremoto assumerà col tempo una doppia faccia. All’inizio, di fronte a tutto quel dolore, solleva un’ondata di solidarietà sincera e generosa. Accorrono in Irpinia in tanti per dare una mano. Molti sono giovani volontari dal Nord solidale, ma arrivano anche Giovanni Paolo II e Lech Walesa, Claudio Abbado e Nanni Moretti. Alberto Moravia scrive un lungo reportage per l’Espresso. Il Mattino ospita le riflessioni puntute di Leonardo Sciascia, che smonta la retorica dei paesi presepe.

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È un anno terribile, il 1980. La tragedia piomba sul Paese alla fine di una lunga sequela di lutti e di stragi. L’Italia è per molti versi ancora un Paese arretrato e provinciale, e il terremoto svela una periferia contadina svuotata dall’emigrazione in Svizzera. In tutta la provincia di Avellino uno su due vota dc, a Sant’Angelo dei Lombardi, questa percentuale arriva al 70 per cento. Ma gli incredibili ritardi nei soccorsi provocano la collera popolare e aprono una crepa. La Democrazia cristiana, il partito Stato, finisce sul banco degli imputati. La gente implora aiuto a Pertini e il Presidente tuona sulle macerie. All’indomani, il 26 novembre, Il Mattino farà un titolo che è nella storia del nostro giornalismo: “Fate presto”. “Non abbiamo santi in paradiso” piangono le donne vestite di nero di Laviano davanti a Miriam Mafai, la grande inviata di Repubblica. Gli italiani imparano a conoscere nomi di paesi fin lì sconosciuti, come Lioni, dove conteranno mille morti “e non sappiamo nemmeno dove metterli”. Scriverà Geno Pampaloni, il 25 novembre sulla Nazione: “Il terremoto si è abbattuto su un lembo dell’Italia più nobile e più derelitta. E’ una vecchia cara Italia, tanto poi più cara, quanto più abbandonata dalla fortuna: lusingata da mille parole, circuita da mille retoriche, ingannata da mille promesse, e ancora una volta chiamata alla prova della sventura”.
È l’Italia della malora e maledice il suo destino. Russo e Stajano pubblicano un libro, nella collana saggi dell’editore Garzanti, quella con la copertina color cammello. Esce come istant book nel febbraio 1981, con le foto di Giovanna Borgese: Terremoto. Colpisce il sottotitolo: Le due Italie sulle macerie del sud: volontari e vittime, camorristi e disoccupati, notabili e razzisti, borghesi e contadini, emigranti e senzatetto. Raccontano questa scena nell’appendice del libro, dove hanno raccolto gli appunti presi sotto la pioggia e la neve, “parole che sono chiazze d’inchiostro diluito”: “Un uomo di una quarantina d’anni guarda nel vuoto, davanti alla sua casa lesionata, all’ingresso di Sant’Angelo dei Lombardi. C’è una confusione enorme, un ingorgo di macchine di privati, di ambulanze della Croce Rossa toscana, di autocarri, per l’unica strada che porta al paese distrutto. L’uomo non sembra accorgersi di quanto accade a pochi passi da lui. Dice: “Ho perso mio figlio di sedici anni nel crollo della chiesa. Ma qui ci sono almeno mille persone sotto le macerie. Qualcuna sarà ancora viva”. “Solo due ore fa sono arrivate due pale meccaniche ” ci informa un finanziere che sta estraendo un cadavere dal carcere crollato. “Fino alle 10 di stamattina non c’era niente di utile per aiutarci a scavare”.
Scriverà a caldo il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari: “Adesso è il momento della solidarietà nazionale, ma passerà presto”.
Ricciardi, Picone e Fiorentino fanno soprattutto un bilancio di quel che accade dopo, quando il terremoto si tramuta in Irpiniagate. Una legge votata dal Parlamento, il 15 maggio 1981, la 219, ampliò a dismisura il perimetro del cratere permettendo di accedere ai fondi fino ai paesi del Lazio e della Puglia, e quindi fuori dalle tre province più colpite, Avellino, Salerno e Potenza. In totale vennero distribuiti così ai 542 Comuni 14.000 miliardi più 60.000 miliardi per sostegni all’industrializzazione. Un’altra legge, la De Vito, permise di accedere ai contributi per farsi la casa anche a chi viveva con i genitori. I modi disinvolti, spesso clientelari, di questa distribuzione di denaro pubblico, figlia di quell’Italia selvaggia, crearono una riprovazione emotiva nelle zone più produttive del Paese e furono all’origine del sorgere delle Leghe: quella lombarda di Umberto Bossi, e quella veneta, di Franco Rocchetta. Il Senatur prese a cannoneggiare contro “l’affare sporco” dell’Irpinia.
Passata l’emozione per i morti e i lutti la ricostruzione aveva finito così, nel breve volgere di qualche anno, per rinfocolare l’eterno antimeridionalismo, trasformando per la prima volta la questione settentrionale in un’offerta politica concreta. La questione meridionale cominciò lentamente a uscire dall’agenda politica, anche sull’onda di una violenta campagna di stampa del Giornaledi Indro Montanelli. E a nulla valse il fatto che – per colmo di contraddizione – a beneficiare della ricostruzione erano quasi tutte aziende e imprese del Nord.
La tesi problematica del libro, è che al netto degli sprechi – i costi per le infrastrutture lievitarono di 27 volte – e delle ruberie, la ricostruzione portò a un cambiamento profondo, innescando una modernizzazione in una terra che fin lì aveva conosciuto soltanto l’emigrazione. Il doposisma, insomma, finì per rappresentare “un processo di accelerazione della storia”. A cominciare dalla nascita della Protezione civile, che venne affidata a un galantuomo democristiano come Giuseppe Zamberletti. Scrive Ricciardi, che si dilunga in un’analisi fattuale sull’Irpinia di oggi: “Lo spreco ci fu, il clientelismo pure, come il malaffare e l’ingerenza della camorra, ma se colpa ci fu, questa fu ascrivibile all’Italia del tempo, alla sua classe dirigente”.
Picone fa notare che non fu indifferente alla furia contro “l’economia della catastrofe” il fatto che la classe dirigente irpina si era fatta nel tempo classe dirigente nazionale. Nel 1988 il suo figlio più talentuoso, Ciriaco De Mita, era diventato addirittura premier. Capo del governo e segretario Dc. Insomma, era il re d’Italia. E l’Irpinia veniva identificata con De Mita e “i magnifici sette”: Agnes, Aurigemma, Bianco, De Vito, Gargani, Mancino. Tutti potenti e riveriti a Roma. La battaglia contro gli sprechi era una lotta contro i notabili di Avellino. Un campo dove, com’era tipico in quegli anni, nobiltà e opacità si mescolavano di continuo. L’assessore regionale Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br, nel 1981 era stato liberato grazie a una colletta che la Dc impose agli industriali impegnati nei lavori della ricostruzione. Il 7 aprile 1989, al culmine delle polemiche, venne varata una Commissione d’inchiesta sul terremoto, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro. Il 3 dicembre 1988 l’Unità, diretta da Massimo D’Alema, aveva fatto questo titolo in prima pagina: “De Mita si è arricchito col terremoto”. De Mita querelò. Ma D’Alema in tribunale spiegò che il punto di domanda del titolo si era perso in tipografia. Fu creduto. Anche De Mita uscì indenne dalle inchieste. Anni dopo D’Alema regalò quella prima pagina al vecchio nemico. Che l’ha poi appesa al muro del suo salotto a Nusco. Ed è la morale di questo controverso capitolo italiano a cui oggi è giusto guardare con gli occhi asciutti degli storici.