07 Giu L’iniziativa Schwarzenbach una ingombrante eredità [ilCaffè, 7 giugno 2020]
L’iniziativa Schwarzenbach una ingombrante eredità
Toni Ricciardi [ilCaffè, 7 giugno 2020, p. 3]
“Psst! Non facciamoci riconoscere, altrimenti arriva Schwarzenbach”, è il primo ammonimento che Concetto Vecchio ricorda dell’infanzia trascorsa in Svizzera e ne fa il filo rosso del suo libro “Cacciateli!” (Feltrinelli, 2019). Il giornalista de la Repubblica deve la sua nascita sul suolo elvetico proprio al risultato dell’iniziativa “contro l’inforestieramento”, passata alla storia come l’iniziativa Schwarzenbach.
Il 7 giugno 1970, cinquant’anni fa, fu una giornata campale. Con l’affluenza del 74%, l’iniziativa venne respinta dal 54%. A livello cantonale, fu approvata nei cantoni con le performance economiche meno brillanti. La Svizzera sfiorò una crisi politica ed economica dalle conseguenze catastrofiche. Se fosse passata, sarebbero saltati più di 250.000 posti di lavoro. La questione stranieri aveva fatto emergere tutti i limiti del federalismo elvetico. Nonostante fosse stata respinta, l’iniziativa era comunque riuscita nel suo intento: spingere il governo verso una stabilizzazione delle presenze, che significava trovare un compromesso tra economia e opinione pubblica. Da un lato, Berna accettò di stabilizzare, dall’altro, rifiutò di limitare la migrazione, esercitando i valori di una democrazia di accordo (della concordanza), quale nei fatti era. La politica del “laissez-faire” venne abbandonata a favore della ricerca di equilibrio tra popolazione residente e stranieri presenti. Sul versante economico, al fine di salvaguardare i settori meno dinamici, il Consiglio federale continuò a limitare la mobilità degli stranieri. Quantificare e avere certezza effettiva dei numeri portò, nel 1973, all’istituzione del registro informatizzato degli stranieri.
Come era stato possibile che in un Paese dalla disoccupazione pari allo zero si fosse arrivati a tanto?
“Nel XIX secolo eravamo una nazione rivoluzionaria; oggi siamo una delle più conservatrici al mondo”. Questo è uno dei passaggi che racchiude meglio il senso dell’Helvetisches Malaise (malessere elvetico) di Max Imboden, che diede inizio al processo di revisione costituzionale in Svizzera. Oltre a denunciare la sua involuzione nel bel mezzo del suo boom economico, il malessere svizzero fu anche un modo per stimolare una riflessione più profonda su quanto accadeva a Losanna, dove nel 1964 si tenne l’Expo nazionale.
La Svizzera voleva raccontarsi come un Paese proiettato verso il futuro, mostrando come fosse cambiata e pienamente entrata nella moderna società dei consumi e dei trasporti individuali. Furono quasi 12 milioni i visitatori che, per la prima volta, assistettero alla timida messa in discussione del passato. La classe media, che ancora negli anni cinquanta era misurabile nel 7% dell’intera popolazione, in meno di un decennio corrispondeva a quasi la metà del Paese. La Svizzera stava cambiando e, mentre assisteva a questo processo epocale, iniziò una lunga riflessione su chi, materialmente, contribuiva al suo successo.
“Per anni abbiamo considerato solo il punto di vista economico. È il momento di accordare maggiore attenzione all’aspetto umano. […] i lavoratori stranieri non sono venuti in Svizzera unicamente a causa di una tensione congiunturale momentanea, […] sono ormai diventati un fattore indispensabile della nostra vita economica. La nostra futura politica d’ammissione non potrà limitarsi a frenare l’entrata di nuovi lavoratori”.
Questo è il punto centrale del messaggio del Consiglio federale all’Assemblea federale nel 1964, in occasione dell’approvazione del secondo accordo di migrazione con l’Italia.
Berna mise in discussione per la prima volta l’idea di temporaneità della migrazione. Il mondo dell’impresa chiedeva di attingere alla manodopera a basso costo dei Paesi in via di sviluppo. Il sindacato, inoltre, qualche mese prima della ratifica del nuovo trattato con l’Italia invitava a fissare un tetto massimo di 500.000 unità. Ciò avrebbe significato un taglio di quasi un terzo degli stranieri, che nel 1965 erano 840.000 e rappresentavano il 14,2% della popolazione. Si riaffacciava prepotentemente la paura dell’infiltrazione straniera. L’Überfremdung (inforestieramento) dalla metà degli anni sessanta e nel decennio successivo si pose al centro del dibattito politico ed intellettuale.
Infatti, nel 1963 Stocker aveva fondato il suo movimento e presentato poi una iniziativa, che fu ritirata, in seguito alla decisione del Consiglio federale del febbraio del 1965 di adottare la doppia limitazione. La misura doveva ridurre al 95% il numero di presenza e vietare l’aumento effettivo del totale, lasciando margini per alcuni settori. Le misure spinsero Berna a ipotizzare un tetto massimo dal 1968. Il provvedimento scatenò una dura presa di posizione dei cantoni economicamente più deboli, che avvertivano il rischio di essere marginalizzati. Sull’altro fronte, le imprese interpretarono questa limitazione come una sorta di protezionismo che avrebbe minacciato interi settori. A favore dell’iniziativa si schierò solo il sindacato. Visto il clima, il Consiglio federale cercò di attutire le tensioni varando altri due decreti volti ad un’ulteriore limitazione globale: nel marzo 1966 del 3% e nel febbraio 1967 del due. Tuttavia, nonostante si fosse registrata una diminuzione degli ingressi, già nel 1964 la percentuale di stranieri continuò a crescere, superando il 17% nel 1968.
Il 20 maggio 1969, 70.000 firme accompagnarono il deposito dell’iniziativa per la limitazione al 10% degli stranieri, passata alla storia come iniziativa Schwarzenbach. Per capire il sentimento dell’epoca, sempre nel 1969, il sociologo Hoffmann-Novotny effettuò un sondaggio a Zurigo su un campione di mille uomini. I risultati furono impressionanti: per quasi il 60% la Svizzera era invasa dagli stranieri. Lo stesso andamento fu registrato rispetto alle domande sulla presenza italiana.
Schwarzenbach fu sconfitto e, in maniera ancora più netta, quando ci riprovò nel 1974. Tuttavia, la sua azione e le sue narrazioni – con l’accento sul tema dell’ambiente, dell’utilizzo del suolo, sullo spazio che si andava restringendo – attecchirono come non mai. D’altronde, aveva dimostrato di avere l’appoggio di metà del paese.
Sul versante politico, se da un lato i movimenti antistranieri furono indeboliti, progressivamente si istituzionalizzarono, gettando le basi per il successo del 1992 e, soprattutto, degli anni 2000. Per quanto riguarda i numeri, ci pensò la crisi petrolifera che dal 1975 falcidiò quasi 300 mila posti di lavoro, prevalentemente stranieri, e consentì alla Svizzera di effettuare una delle più importanti ristrutturazioni del sistema economico a costo zero.
Eppure, quasi mezzo secolo dopo, nel 2014, le idee di Schwarzenbach hanno vinto e tra qualche mese saranno riproposte. Ancora una volta le “narrazioni” sono le stesse di 50 anni fa: tecnocratici, burocrati, ambiente, consumo del suolo, indipendenza; come se il tempo non fosse mai passato.
Esiste anche un altro punto di vista, espresso proprio 50 anni fa da Leo Zanier – del quale è recentemente uscita una biografia scritta da Paolo Barcella e Valerio Furneri (“Una vita migrante”, Carocci 2020) – che forse ci potrebbe aiutare a riflettere:
“Lo scandalo per gli emigrati non è Schwarzenbach, è lo statuto di operaio stagionale, è in generale la condizione che ci è riservata, in Svizzera come in Francia, a stagionali e non. La tranquillità con cui ci fanno venire e la tranquillità con cui ci possono rimandare al nostro paese. Le possibilità di organizzare una economia con noi e una vita civile senza di noi”.