03 Feb Noi, piccoli italiani clandestini – [L’Espresso, 3 febbraio 2019]
Migranti/03 – La memoria perduta
Noi, piccoli italiani clandestini – [L’Espresso, 3 febbraio 2019]
Egidio, Toni, Catia…
Il racconto dei figli di espatriati in Svizzera. Reclusi in casa, per nascondersi dalla polizia «Guardavo gli altri bambini giocare, io non dovevo esistere. Poi una sera arrivarono. E ci cacciarono».
di FRANCESCA MANNOCCHI
Le mogli e i bambini degli immigrati sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle e minacciano lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». Queste parole sembrano uscire dalla cronaca di questi mesi, invece a pronunciarle fu negli anni Ottanta James Schwarzenbach, politico svizzero xenofobo che si batteva contro la presenza di migranti nel suo paese.
E i migranti, allora, cioè appena trenta, quaranta anni fa, eravamo noi. «Non mi arrendo al populismo di questi tempi, perché le stesse cose che sento dire oggi ai migranti le dicevano a mio padre: noi eravamo quelli col coltello in tasca, quelli che portavano il malaffare in Svizzera. Perciò quando vedo arrivare ragazzi, donne e bambini nudi di tutto, nudi di accudimento, di soldi, di sorrisi, penso che sia doveroso da parte nostra prenderli per mano. Perché non vivano quello che abbiamo vissuto noi». Egidio Stigliano oggi è un medico, vive a Zurigo, è stato uno delle migliaia di bambini clandestini italiani in Svizzera, bambini cioè che vivevano nascosti nella federazione elvetica perché il permesso di lavoro stagionale dei loro padri non prevedeva la presenza delle famiglie, delle donne non lavoratrici, dei bambini. Per questa ragione molti bambini figli di lavoratori stagionali erano costretti alla clandestinità, perché se scoperti sarebbero stati destinati agli orfanotrofi di confine. La norma che prevedeva il divieto di portare con sé i figli per i lavoratori stagionali è rimasta in vigore fino al 1996. Quando parla della sua infanzia Egidio si commuove: «Non potevo giocare con altri bambini, spiavo dalla finestra i ragazzini svizzeri giocare a palla, attento a non farmi vedere. Terrorizzato che la polizia venisse a bussare alla nostra porta e ci cacciasse, per colpa mia. A sette anni vuoi solo giocare con i tuoi coetanei, io invece mi accontentavo di vederli dalla finestra. Era il mio solo contatto con l’infanzia degli altri». Egidio usciva di casa solo per andare a giocare in un bosco, di tanto in tanto, nascosto tra gli alberi per non farsi vedere da nessuno. «Quando arrivo in dogana, ancora oggi che sono un professionista e non ho niente da nascondere e ho la mia famiglia e la mia casa in Svizzera, quella soglia per me è un muro. Quella soglia rappresenta il terrore essere scoperti e rispediti indietro, alla povertà che ci aspettava in Italia». Il padre di Egidio usò un modo secco per spiegare la situazione al figlio: non devi uscire per nessuna ragione, non devi farti sentire, qui non esisti.
Suo padre era muratore, sua madre stiratrice in una fabbrica. Egidio ricorda anni di solitudine profonda, lunghe giornate ad aspettare che tornassero da lavoro. L’unico sollievo un ruscello nel bosco, dove di tanto in tanto scappava – da solo – a passeggiare: «Da bambino clandestino vivevo col batticuore continuo, tremavo al suono di una sirena. Se qualcuno bussava alla porta istintivamente mi nascondevo sotto il letto. Il bambino clandestino è un bambino che sostiene sulle spalle la responsabilità che la sua famiglia sia cacciata dal posto di lavoro a causa sua». Un giorno un vicino ha denunciato la presenza di Egidio nel paese. «Oggi voglio pensare che l’abbia fatto a fin di bene, ero un bambino chiuso in casa, senza la possibilità di andare a scuola», dice Egidio. «Così la sera della denuncia arrivò la polizia elvetica a cacciarci. Chiesero a mio padre: dov’è il bambino, tiratelo fuori. Mia madre mi prese per mano e quella stretta di mano non la dimenticherò mai». Piange Egidio nel ricordare quella sera e contemporaneamente si riempie d’orgoglio nel ricordare la forza di suo padre, manovale, nel battersi per i propri diritti. Il giorno dopo il datore di lavoro di suo padre garantì di fronte alle istituzioni per lui, il bambino poteva restare. Il welfare che la Svizzera non garantiva alle famiglie dei lavoratori stagionali italiani era garantito da una rete di solidarietà nascosta, clandestina a sua volta. «Un giorno caddi e mi ruppi un braccio e non potevo andare all’ospedale, avevamo paura. Mi portarono di notte a casa di un medico mi ingessò di nascosto». Egidio porta ancora i danni di quell’ingessatura clandestina sul suo braccio sinistro. Oggi ricorda gli sguardi degli altri, dei “normali”, degli svizzeri. «Sono occhi che non dimentichi, quelli che ti guardano come un diverso. Quella vergogna ti resta attaccata addosso tutta la vita, avevo la pelle più scura e mi dicevano che puzzavo. Per questo in ognuno dei ragazzi che arrivano via mare io vedo me stesso».
Toni Ricciardi è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, ha scritto per Donzelli “Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera”: «nel 1948 la Svizzera stila un codice di reclutamento della manodopera straniera con l’Italia, quasi il 50 per cento del flusso migratorio in uscita dall’Italia era diretto nella federazione elvetica», dice. «Lo statuto dello stagionale – che sarà abbandonato solo nel 2002, dopo gli accordi di libera circolazione con l’Ue – seguiva una visione della società in cui il migrante era visto solo come provvisorio, per questo prevedeva il ricongiungimento familiare. Normava la vita del singolo lavoratore o lavoratrice. Quindi mariti e mogli spesso vivevano separati, e c’erano baracche separate per donne e uomini». Il decreto non prevedeva la gestione dell’infanzia e se una donna lavoratrice restava incinta, il bambino doveva essere espulso dopo tre mesi, tornare oltreconfine, e la madre al lavoro, se voleva restare in Svizzera. Da lì il proliferare di istituti nel varesotto, nel comasco, dove i bambini dei lavoratori stagionali venivano tenuti, e tratti come orfani: «La storia dei lavoratori italiani stagionali e delle loro famiglie dimostra una volta ancora che nessuno nasce clandestino, ma che clandestino si diventa per decreto legislativo», dice Ricciardi. «La ratio dal punto di vista economico fu limitare i costi sociali. La Svizzera cioè non prevedeva costi per l’istruzione, costi medici, che la gestione della semplice migrazione lavorativa – o economica come la chiamano oggi – non avrebbe necessitato. Tu mi offri la forza lavoro, io non devo garantirti welfare, questo era il patto», conclude.
Un’infanzia difficile anche quella di Catia Porri, oggi sessantacinquenne con la doppia cittadinanza italiana e svizzera: anni di collegio a Firenze, padre manovale, poi la perdita del lavoro, lo sfratto e la decisione di andare in Svizzera, una piccola città vicino Zurigo, dove viveva una zia, che era già partita in cerca di fortuna. Erano gli anni Sessanta, gli anni del boom economico: i manovali italiani erano richiestissimi, lo zio di Catia era piastrellista, suo padre cominciò a lavorare come saldatore. Ottenne il permesso di lavoro come stagionale, quindi niente famiglia, niente figli. Nessuno che non lavorasse. Le famiglie dei lavoratori potevano ottenere solo un visto di soggiorno turistico e quando scadeva erano costrette a tornare in Italia, a casa. Sempre che l’avessero, una casa. Catia ha ricordi nitidi di quei quattro anni, prima che suo padre avesse la possibilità di cambiare il suo permesso di soggiorno da stagionale ad annuale. Ricorda la solitudine, l’ingiustizia, ma soprattutto Catia ricorda la paura. «Ero rinchiusa. Significava non mettere la testa fuori, non uscire dalla stanza, non farsi vedere da nessuno. Nessuno doveva sapere che esistevamo. Per me la frontiera italiana era un muro. Uscivamo legalmente da Chiasso, per far timbrare il passaporto in uscita e rientravamo illegalmente, sulle strade meno battute dal Ponte Tresa, io ero nascosta nel bagagliaio della macchina di mio padre con il terrore dei controlli. Non percepivo la mia paura. Ma sentivo chiaramente la paura intorno a me, quella dei miei genitori. Mia madre non avrebbe saputo dove lasciarmi in Italia e contemporaneamente sapeva che la mia presenza lì metteva a rischio il loro stipendio. Li sentivo dire: cosa succede se la scoprono? Ci buttano fuori dalla Svizzera. Come mangiamo? Cosa faremo?». Catia aveva dodici anni, ha passato quattro anni senza poter imparare il tedesco, sei mesi l’anno chiusa in casa, poi ha cominciato con fatica a vivere in un paese in cui di fronte ai bar erano appesi i cartelli con su scritto: Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani. «Le stesse frasi discriminatorie che sentiamo ora, le sentivamo noi, rivolte alle famiglie italiane. Quando osservo quello che accade in Italia, oggi, mi vergogno profondamente. E la cosa che mi fa più male è sentirmi così impotente. Io ho lottato per i diritti degli italiani migranti e anche per migliorare la situazione di tutti gli altri migranti in Svizzera. Mi sembra impossibile che dopo tutto quello che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, le persone non capiscano che stiamo rispondendo a chi chiede aiuto con gli stessi metodi atroci che abbiamo vissuto quando eravamo noi bisognosi. Mi sembra che la storia non ci abbia insegnato nulla. E mi sento inutile. Questo mi fa soffrire moltissimo». Oggi Catia vive in una piccola cittadina ai confini di Zurigo, gli stranieri sono il 43 per cento della popolazione. «Significa uno svizzero uno straniero. Con un sistema di integrazione che funziona. Noi italiani abbiamo vissuto dei momenti così tragici in passato e ora cerchiamo di rimuoverli, perché pensiamo di sentirci migliori. Abbiamo bisogno di pensare che noi non siamo più così, non siamo come questi ragazzi in fuga. La gente pensa: ci siamo evoluti, non siamo più feccia, non abbiamo bisogno di chiedere aiuto a chi è più ricco e ha bisogno di manodopera. Non viviamo più nelle baracche e non abbiamo bisogno di emigrare. Noi siamo la parte nobile della società. Questo pensano le persone, rimuovendo il proprio passato. Ma siamo stati come loro. Questa è la verità che non vogliamo vedere».