18 Giu Così la politica internazionale guidava le migrazioni [ilcaffè, 17 giugno 2018]
Così la politica internazionale guidava le migrazioni per “ricostruire” popoli e Paesi
Non era trascorso nemmeno un anno dalla fine della seconda guerra mondiale, quando, nell’agosto del 1946, la Commissione permanente delle migrazioni (Cpm) si riunì a Montréal, presso l’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil). All’ordine del giorno vi era l’approvazione della convenzione internazionale concernente i lavoratori migranti del 1939, che si sarebbe dovuta approvare a Ginevra l’anno seguente e che, a causa delle vicende belliche, slittò al 1946. I lavori della Commissione dovevano addivenire alla gestione internazionale della questione migratoria, dei profughi e sfollati di guerra e soprattutto di come e con quali strumenti rilanciare la migrazione europea e internazionale.
Nonostante fosse stata sconfitta, l’Italia fu invitata al tavolo, essendo quasi l’unico paese europeo di emigrazione. D’altronde, fu uno dei pochi paesi europei ad aver affrontato la seconda guerra mondiale, considerando i milioni e milioni di cittadini sparsi per il mondo e nelle colonie dei paesi vincitori, contro gli stessi che fornivano lavoro alla propria manodopera. Di questa condizione i componenti della Commissione erano ben consapevoli, tanto che l’emigrazione italiana era «un fenomeno spontaneo che nessuno pensa[va] di ostacolare». Questo fenomeno doveva essere regolato da accordi, in parte già sperimentati, ben diversi dalle convezioni tra Stati dell’epoca liberale, come ad esempio la convenzione tra Svizzera e Italia del 1868.
Per il governo italiano, invece, l’emigrazione doveva essere incoraggiata «se ed in quanto riesca di giovamento agli interessati stessi o all’economia italiana, cioè ai lavoratori rimasti in Italia». Ovviamente, ciò non significò che si facesse ricorso allo strumento dell’emigrazione solo in caso di vantaggio oggettivo, ma che, nell’ambito del nuovo quadro internazionale, lo stesso strumento venisse utilizzato in termini di scambio convenevole. Fu chiaro a tutti che non occorreva solo ricostruire il mondo, occorreva ricostruire e fare rinascere anche l’Italia e la sua economia e, soprattutto, riconnetterne il tessuto sociale. E allo stesso tempo, elemento da non sottovalutare, occorreva «premiare» in qualche modo i paesi vincitori. Questo fu il caso del Belgio, che per primo inaugurò la stagione degli accordi e fu, nei fatti, l’interlocutore dell’Italia al tavolo della Commissione internazionale per le migrazioni. Due mesi prima, il 23 giugno 1946, i due paesi avevano siglato l’accordo minatore-carbone. Il Belgio così recuperava manodopera a basso costo per le sue fatiscenti miniere, mentre l’Italia forniva disoccupati da Nord a Sud del paese. In altre parole, i due paesi parteciparono alle sedute della Commissione per le migrazioni con un modello con cui poter sperimentare una soluzione possibile al tema. Nel frattempo, Roma aveva rispolverato il Ministero del lavoro e della massima occupazione – all’epoca si chiamava così – e messo in piedi i Centri di Emigrazione, che le consentirono di portare avanti il più grande sistema statale di esportazione di donne e uomini che la storia occidentale abbia mai conosciuto. Detto diversamente, si voleva passare da una emigrazione «disciplinata» ad una «controllata e assistita» dallo Stato. Nonostante decine di migliaia di persone l’anno furono indotte a partire verso il Belgio, la migrazione verso la Svizzera continuava già dall’8 settembre del 1943 in poi. Nella Confederazione l’arrivo in massa si era già registrato in occasione dei grandi trafori (Gottardo e Sempione), adesso occorreva in qualche modo disciplinarne la venuta. Dal punto di vista normativo, la Confederazione durante il periodo di chiusura internazionale dei flussi, in linea con quanto fatto negli Stati Uniti, si era dotata di leggi e ordinanze per disciplinarla (nel 1917 era nata la Polizia per gli stranieri e nel 1931 fu adottata la prima legge organica concernente la dimora e il domicilio degli stranieri (Ldds), che entrò in vigore nel 1934). Ora serviva ripartire.
A volte, la storia è fatta di casualità fortuite o meno, ma esattamente due anni dopo l’accordo con il Belgio, il 22 giugno del 1948, l’Italia firmò con la Svizzera, esattamente 70 anni fa, quello più importante della sua recente storia repubblicana. Per la Svizzera fu il primo di una lunga serie di accordi per importare manodopera straniera. Il documento soddisfò entrambi i contraenti. La Svizzera ottenne l’applicazione individuale del diritto degli stranieri (in linea con le leggi che si era appena data in materia di migrazione), mentre l’Italia ottenne un doppio risultato: calmierare le tensioni sociali e politiche interne e, soprattutto, attingere alle crescenti rimesse, il vero carburante del boom economico degli anni Sessanta.
Quando nel Novecento la Confederazione ospitò la metà dell’emigrazione italiana
In fatto di migrazione, la Svizzera rappresenta un caso emblematico e, insieme, un modello ricco di paradossi. È il paese europeo che nel secolo scorso ha conosciuto il tasso d’immigrazione più alto del continente, assorbendo quasi la metà dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra. In settant’anni ha raddoppiato la sua popolazione, passando da quattro milioni agli oltre otto odierni, e la migrazione è al centro del dibattito da sempre.
Nel 1948, per la prima volta nella sua storia, la Svizzera firmò un accordo di reclutamento di manodopera straniera, che divenne un modello per i successivi e cambiò per sempre la sua storia e quella del suo principale fornitore di donne e uomini, l’Italia. Paese dal quale, a partire dai trafori dell’Ottocento e per un secolo, sono giunti oltre cinque milioni di persone, la metà solo nel secondo dopoguerra. Ancora oggi, quella in Svizzera è la terza comunità italiana nel mondo che ormai su più 700 mila, la metà sono doppi-cittadini.
Concepita come temporanea, dopo qualche decennio divenne stanziale e rappresentò il carburante per la crescita e l’espansione dell’economia elvetica. Nessun paese europeo registrò performance così favorevoli e allo stesso tempo un così alto numero di morti bianche, che raggiunsero l’apice con la tragedia di Mattmark. Assopitosi il decennio delle tensioni xenofobe, all’inizio degli anni ottanta venne accantonata una possibile soluzione per migliorare le condizioni di chi contribuiva al progresso e al benessere del paese. Sono ormai lontani gli anni delle baracche, del «non si fitta agli italiani» o dei trentamila bambini clandestini. A tutt’oggi, la Svizzera è l’unico paese al mondo, oltre all’Italia, in cui l’italiano è lingua ufficiale. E l’italianità, pur tra alti e bassi, è riconosciuta, ricercata, apprezzata. Da un decennio si registra la ripresa di una nuova mobilità italiana: alle professioni specializzate si è unito il crescente numero di frontalieri e di chi è alla ricerca di un lavoro qualsiasi. Il rischio è che si ripropongano le questioni di un passato ricco di suggestioni e contraddizioni, che fanno della migrazione italiana in Svizzera un unicum senza precedenti.