Storie di migranti, di ieri e di oggi [laRegione, 26.02.2018]

Storie di migranti, di ieri e di oggi [laRegione, 26.02.2018]

Ne abbiamo parlato con Toni Ricciardi, storico delle migrazioni, che in città ha incontrato i suoi connazionali
di Daniela Carugati

Tra compaesani

Dall’Accordo italo-svizzero del 1948 sono passati 70 anni. Il vissuto dei migranti di ieri e dello storico Toni Ricciardi ci aiutano a capire l’oggi, a cavallo di un confine ‘anomalo’.
«L’Italia è una Repubblica fondata sull’emigrazione». Detta così può sembrare una dichiarazione forte. Ma pronunciata da Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra, non è certo una provocazione. E neppure vuole esserlo. Quanti gli si sono fatti torno torno lì alla sala del Carlino, a Chiasso, non hanno bisogno di farselo spiegare. Lo sanno e basta. Pure loro sono stati emigranti; la maggior parte dall’Irpinia, come Franco, il titolare del ritrovo, come la famiglia dello stesso Ricciardi. Madre operaia, padre muratore, è arrivato in Svizzera, a Baar (Canton Zugo), nel 1978, quando aveva solo 8 mesi ed era uno dei tanti bambini clandestini. Ricordarlo oggi, nel 2018, e a Chiasso non è un caso: 70 anni orsono, infatti, Italia e Svizzera firmavano l’Accordo d’emigrazione. «E la cittadina di confine è un posto simbolo come pochi altri», ci fa notare Ricciardi. Non si può dimenticare che circa la metà delle persone partite dall’Italia dal secondo dopoguerra in poi, appresso la valigia di cartone, sia approdata nel nostro Paese. E questa a sud era una delle porte d’ingresso. «Ecco perché ho insistito per venire qui, dove ho anche dei legami d’affetto». Con i suoi connazionali Ricciardi è venuto a parlare di politica (visti i tempi). E di argomenti non ne mancano: in fondo hanno in comune lo stesso vissuto, che i più preferiscono non raccontare. «Dalla mia ho forse la voglia di non nasconderlo e la fortuna, rispetto a tanti altri, di poterlo rendere pubblico». Soprattutto adesso che è tornato in Svizzera da ricercatore. «Io sono riuscito a trasformare questo percorso biografico, questa passione in una professione. Certo mi è costato e mi costa sempre – ammette –: ogni qualvolta analizzo qualcosa che ha a che fare con l’emigrazione in generale e poi ne scrivo nei miei libri, ho alcuni passaggi che devo scrivere due o tre volte: l’impatto diretto è troppo duro. Ho dovuto fare uno sforzo, e non so se ci sono riuscito, forse non ci riuscirò mai ad analizzare la questione con il dovuto distacco». Con il ‘Made in Italy’, in particolare dagli anni Ottanta, come lei ci insegna nei suoi saggi –l’ultimo, ‘Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità’, Donzelli –, la percezione dell’italiano in Svizzera è mutata. «Sono stati i migranti a fare la storia, inconsapevolmente, per Chiasso, per la Svizzera e per il Paese che hanno lasciato».

‘Tra il non più e il non ancora’
L’esperienza ticinese è diversa da quella d’Oltregottardo. Qui ci si è ormai lasciato tutto alle spalle? «Storicamente è ciclico: qualcuno viene sostituito da qualcun altro. Gli albanesi in Italia sono stati sostituiti da altri, e a loro volta sostituirono i marocchini. In Svizzera gli italiani con la guerra dei Balcani sono stati sostituiti dagli slavi. E oggi questo percorso prosegue. Gli slavi paradossalmente sono stati sostituiti dai frontalieri – richiama Ricciardi –. Qual è il problema? Le dinamiche non sono dinamiche di contrarietà ‘etnica’, ma vanno lette in una scala più ampia: maggiori sono le condizioni di difficoltà e maggiore è la contrapposizione, la crescita di paura e quindi additare l’altro. Chiasso è l’emblema di questa situazione, è la frontiera anomala per eccellenza di questo Paese. Il punto per questa cittadina, ma in generale per il Sottoceneri e il Ticino, è che è rimasta ancorata a una storia tra il non più e il non ancora. È come se non avesse agganciato il treno della riformulazione industriale di questo Paese, identificabile con lo Swatch. Sembra non aver seguito questa scia. Così a Chiasso hai Corso San Gottardo e a 100 metri via Odescalchi: sono un po’ le contraddizioni. Il palazzo della Fernet Branca probabilmente è l’emblema di una storia che era e che non c’è più». I rapporti al confine, in effetti, si sono ribaltati. «Ci si chiede come riconvertire il fatto che prima erano gli italiani a venire a Chiasso e ora sono i ticinesi ad andare a Como? È nella complessità, nello sguardo lungo, a vasi comunicanti che bisogna ragionare e affrontare i problemi», suggerisce lo storico. Ma Chiasso fatica a ritrovare la propria identità. «Ma Chiasso cos’è? Un pezzo di Svizzera, di Ticino o è la frontiera estrema dell’area vasta di Milano? Io non ho la risposta, ma credo che siano tanti di questi elementi da tenere in considerazione, se no non ne esci».

‘Braccia, cervelli? No, chiamiamole solo persone’
Ogni storia è diversa eppure uguale. Non si dimentica il passato. E neppure si vuole essere dimenticati. Tra chi osa dare voce al proprio vissuto, qualcuno teme che figli e nipoti diano un taglio netto alle loro radici. Per chi ha voluto incontrare Toni Ricciardi al Carlino quello con il paese natale è l’unico vero legame rimasto. Ci avvicina un signore, orgoglioso di declinare le sue origini: «Io sono di Nusco», ci dice. “Dove l’Irpinia sembra la Svizzera”, si legge sul portale de ‘I Borghi più belli d’Italia’. E lui rivendica la sua ‘svizzeritudine’, anche perché da noi è arrivato che ancora non aveva fatto i 17 anni: braccia fra altre braccia. Chissà perché i migranti si identificano sempre con parti del corpo – ieri erano le braccia a basso costo, oggi sono i cervelli (magari in fuga) – e non con la persona tutta intera? «La difficoltà che noi abbiamo è anche linguistica – ci spiega Ricciardi –. Le parole pesano, mai come adesso in una fase di difficoltà e di paure. Alimentare le paure, del resto, è lo strumento più facile in mano al potere. Ora, se noi cambiassimo la narrazione, modificassimo i termini: invece di chiamarli migranti, immigrati, extracomunitari, africani, neri, slavi o turchi, iniziassimo a chiamarli persone, ridefiniremmo il quadro». Lei lo ha vissuto sulla sua pelle. Che memoria ha della sua infanzia nascosta? «La memoria diretta è quasi inesistente, ho dei flash, avevo 4 anni. È più nei racconti di mia madre e negli anni successivi. Quello che rammento è tutta la fase da bambino a ragazzino, fino al 1992 quando siamo ripartiti. Ricordo ancora le forme di discriminazione e anche velata precarietà nel vivere la quotidianità in alcuni momenti. Una cosa che mi è rimasta è che avverti costantemente una sorta di mancanza: manca sempre qualcosa, nonostante tu ti possa sentire integrato. Io ero sempre stato etichettato come il bambino eccessivamente vivace, per il vissuto e il modo d’essere allora in parte non ancora accettato. Guardandolo dal punto di vista del percorso personale, era una sorta di ‘diminutio’ il fatto che venissi additato come quello vivace nel contesto della Svizzera interna degli anni 80». Storicamente, invece, stava già cambiando qualcosa.