Breve storia della Svizzera “made in Italy” (ilMattino, 28 gennaio 2018)

Ricciardi racconta quando a emigrare eravamo noi: nella nazione in cui l’italiano è lingua ufficiale

Generoso Picone – il Mattino, 28 gennaio 2018, p. 15.

Per essere un risarcimento, quantomeno la modalità è singolare. La vignetta pubblicata il 19 novembre dell’anno scorso dalla «Neue Zürcher Zeitung am Sonntag» mette in sequenza lo sconforto di un signore davanti a una pizza senza mozzarella, «Pizza ohne mozzarella» – , a un tazzina senza caffé, «Ristretto ohne koffein» – e una televisione con schermo spento, «Italien ohne World Cup». Certo, si tratta di stereotipi, di immagini lise e consunte dall’estenuante utilizzo durante i decenni, ma il domenicale di Zurigo prende la faccenda parecchio sul serio dedicando alla questione anche un commento, firmato da Christine Steffen e titolato «Sommer ohne Felicità», «Un’estate senza felicità», giusto per ribadire: «Qui gli italiani, i loro figli e le loro figlie ci hanno insegnato come si fa un corteo con le auto. Ci hanno mostrato come si festeggia per strada, con dignità, la propria Squadra. La Svizzera è la squadra che guardiamo con la distanza dei genitori critici. La Squadra, invece, può essere immaginata con l’amore delle nostre vacanze. Con l’Italia, questa estate mancherà l’obiettivo dei nostri desideri. E questo è davvero triste».
Il calcio provoca anche questi effetti. Ma nel caso svizzero va ad acquisire il significato di uno straordinario acceleratore delle dinamiche di trasformazione identitaria, rivelando una capacità di rielaborazione dell’immagine di un popolo che attraverso le gesta della propria Nazionale consegna la cifra di uno stile di vita complessivo, tanto da andare a costituire un punto centrale nell’autorappresentazione del carattere di un Paese. Toni Ricciardi parte proprio da questo episodio nel raccontare la Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera (Donzelli, pagg. 246, euro 19,50: da giovedì primo febbraio in libreria) e documentare così un importante mutamento di scenario che da quel titolo del giornale di Zurigo va a definire una sorta di paradigma della nuova società aperta.
Perché se nel 1969 alla domanda «Come la prenderebbe se sua figlia sposasse uno stagionale italiano?» il 56,3 per cento riteneva quest’ipotesi del tutto inopportuna, 25 anni dopo la percentuale si era ridotta al 7,6 e al quesito «Per gli Svizzeri sarebbe un danno acquisire qualche elemento legato alla mentalità italiana?» dal 52,8 per cento di no di allora un quarto di secolo dopo si arrivò al 91,7 di sì. Il fatto è che in mezzo c’era stato l’urlo di Marco Tardelli e la vittoria degli azzurri al Mondiale del 1982, straordinaria icona che riesce a ribaltare lo stereotipo alimentato anche da un certo sentimento xenofobo razzista, fissato dalle baracche affollate di minatori a Mattmark, dal Nino Manfredi di «Pane e cioccolata», dalle strazianti lettere ai familiari lontani, dai cartelli antimeridionali nei locali pubblici. Da quel trionfo pallonaro, invece, cambia con progressiva radicalità la percezione di una presenza che da iattura penalizzante si ricompone come cultura arricchente. L’Italian Lifestyle.
«A lungo discriminata e sfruttata, la collettività italiana si è presa una rivincita silenziosa rivoluzionando il modo di vivere di questo Paese», sottolinea Sandro Cattacin nella prefazione. A 50 anni dall’accordo sottoscritto da Alcide De Gasperi nel 1948 per il reclutamento della manodopera italiana – braccia in cambio di carbone – che trasferì in Svizzera due milioni e mezzo di emigrati per necessità, oggi la comunità tricolore nella Nazione elvetica è la terza nel mondo, facendo lì dell’Italiano la lingua ufficiale del Paese, e soltanto da quelle parti è successo. Si è modificata la Svizzera e anche la comunità italiana, composta non più da semplici lavoratori, ma anche e forse soprattutto da rappresentanti di grandi imprese e servizi, di esponenti dei mondi della cultura, della scienza e delle professioni e in tal modo dalla condizione di pesante e sofferta marginalizzazione si è passati alla benevola accettazione e alla larga e soddisfacente condivisione.
Ricciardi, storico all’Università di Ginevra, irpino e figlio di emigrati, ha la capacità di sintezzare un paio di secoli e più di onde migratorie, con caratteristiche, presenze e reazioni diverse, in una narrazione che si giova del suo punto di vista interno e partecipato ai fatti. Riesce quindi a cogliere con particolare sensibilità le articolazioni di un fenomeno ampio e variegato, individuando l’elemento oggi cruciale e ponendolo al centro del dibattito di questi giorni. Nonostante il governo svizzero abbia presentato il piano per porre limiti all’immigrazione di cittadini di Paesi Ue dando seguito al risultato del referendum del 2014 con cui si è scelto di fermare l’immigrazione di massa, gli italiani che hanno deciso di trasferirsi da quelle parti sono aumentati a un ritmo che ricalca l’andamento degli anni 60. Questa volta ben accolti, da un Paese la cui Nazionale – per rimanere in ambito calcistico – è un manifesto alla società multirazziale e allo jus soli: Inler, Dzemaili, Behrmi, Shakiri, Xhaka, Sferovic, Embolo, Mehmedi, Rodriguez, Fernandes, eccetera. Dove si è ben capito, anche grazie alla presenza italiana, che come ricorda George Simmel, «l’opiste, lo straniero è colui che oggi viene e domani resta».