Marcinelle sessant’anni dopo – l’Espresso, 1 agosto 2016

Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani.

di Maurizio Di Fazio
Schermata-2016-08-01-alle-20.27.50Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011) : “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”. Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa.
L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti.
Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani.
Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo.
Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro.
Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle.
Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo.
Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore.
Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti.
“Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli. Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”.
Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi.
Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo.
Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”.
Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe.
L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi.
Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro.
La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani.
Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”.
Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”.
Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello(oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia.
Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria.
La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità.
Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un’emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”.
Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le perso­ne. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò).
Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto.
La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi.
Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi.
E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”.
Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.