Quando la vita valeva meno del carbone (Quotidiano del Sud, 17 luglio 2016)

Ricciardi ricostruisce la tragedia di Marcinelle, nel sessantesimo anniversario di quella immane sciagura

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Manuela Citro – Quotidiano del Sud – 17 luglio 2016, p. 22.

Ricorre quest’anno il 60esimo anniversario della tragedia di Marcinelle, che rievoca ricordi bui e dolorosi. Quella di Marcinelle è comunemente riconosciuta come la strage degli italiani all’estero. Non fu né la prima né l’ultima, né quella con il maggior numero di vittime italiane, ma rappresenta il punto di non ritorno, uno dei tasselli più dolorosi del variegato mosaico della migrazione italiana nel mondo.
“La storia delle migrazioni è la storia di quanti l’hanno vissuta, ma allo tesso tempo di coloro che l’hanno subita, è la storia dei luoghi della partenza e dell’arrivo, è la chiave interpretativa delle storie delle classi dirigenti. La storia delle migrazioni è una storia globale.”
Marcinelle, 1956 – Quando la vita valeva meno del carbone’ è un saggio di storia e scienze sociali scritto da Toni Ricciardi con un capitolo di Annacarla Valeriano ed è edito da Donzelli Editore, Roma, 2016.

Toni Ricciardi è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra. Codirettore della collana «Gegenwart und Geschichte-Présent et Histoire» (Seismo), è tra i coautori del Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Migrantes e tra gli autori del primo Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo (Ser, 2014). Ha scritto, tra l’altro, Associazionismo ed emigrazione. Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera (Laterza, 2013) e L’imperialismo europeo (Corriere della Sera-Rcs, 2016). Ha curato, con Sandro Cattacin, Le catastrofi del fordismo in migrazione (Cser, 2014). Con Morire a Mattmark (Donzelli 2015) ha vinto i premi Sele d’Oro Mezzogiorno nel 2011 e La valigia di cartone nel 2015.

Annacarla Valeriano ha contribuito a fondare l’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese dell’Università di Teramo, presso cui lavora. Con Donzelli ha pubblicato Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (2014), con cui ha vinto il premio internazionale di saggistica Città delle Rose, miglior autore abruzzese (2014), il premio Franco Enriquez (2014) e il premio Francesco Alziator (2014).

Con uno stile semplice e quotidiano, l’autore ci introduce in un’atmosfera permeata di onore, disperazione ma anche coraggio; valori che nella nostra cultura sembrano purtroppo sbiadire di fronte ad una superficialità galoppante. Commuove, indigna, stupisce, in ogni caso lascia il segno. Si inserisce nel processo di mitizzazione della figura del minatore, che da povero diavolo in fondo alle viscere della terra si trasforma nel corso dei secoli in eroe e mito di intere nazioni. L’emigrazione diventa nel dopoguerra «dolorosa ma assoluta necessità»: una valvola di sfogo per risolvere e mitigare le crescenti tensioni interne e allo stesso tempo in grado di entusiasmare le masse, e il governo fece di tutto per incoraggiarla; gli emigranti diventano parte dello scambio carbone-manodopera, usati per riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Si diffuse una sorta di «psicosi d’emigrazione» tra i maschi maggiorenni di tutti i ceti sociali e di tutte le regioni, che cominciarono a rispondere alla chiamata dei manifesti rosa che tappezzavano le piazze e i bar dei paesini e che incitavano a partire per il Belgio, grande produttore continentale di risorse minerarie, reclutando braccia forti da impiegare nelle miniere. Ancora inconsapevoli di dover scendere nel fondo delle viscere della terra, che fossero regolari, irregolari o clandestini, l’importante era che ne partissero il più possibile, per andare a scavare quel carbone che sarebbe dovuto servire a rilanciare l’economia di gran parte del continente ma che di fatto non giunse mai a destinazione.
Si sfruttava l’ingenuità e l’ignoranza di chi voleva a tutti i costi partire, di chi voleva semplicemente sollevare le sorti della propria famiglia. Così arrivavano i ‘macaronì’, nomignolo dispregiativo con cui venivano chiamati gli italiani in Belgio, un cliché identitario che solo dopo la tragedia dell’8 agosto 1956 venne parzialmente sotterrato. Non è difficile immaginare la disperazioni di coloro che passarono dalla luce bianca dei riflessi della neve, al nero più intenso delle viscere della terra. Alcuni piansero, ma molti si vergognarono di tornare a casa. Altri, dopo le prime ore in fondo alla mina, stracciavano il contratto, chiedendo di essere destinati ad altra occupazione o addirittura rimpatriati immediatamente. Divenne prassi quella di far “soggiornare” in carcere i disertori, riservandogli lo stesso trattamento dei prigionieri di guerra. Delle sofferenze e dell’inadeguatezza ebbe diretto riscontro un giovanissimo Aldo Moro, sottosegretario agli Esteri. Descrisse il lavoro di questi minatori come “abbrutente, inumano, svolto lontano dalla luce del sole in condizioni di pericolo e timore, uno stato permanente di disagio e inquietudine vissuto come una condanna da cui si attende la liberazione.”
Con l’8 agosto 1956 cambia il giornalismo italiano: questo cambiamento maturò lentamente attraverso la penna di coloro che, da giovani, riportavano su carta una delle pagine più amare e controverse dell’emigrazione italiana in Belgio. Erano da poco scoccate le 8 del mattino dell’8 agosto 1956, i 274 uomini del turno si erano piazzati come formiche a quasi un chilometro sotto terra, e si scatenò l’inferno. Di quel turno riuscirono a salvarsi poco più di una dozzina di uomini. 14 su 274. Quelli che si considerarono scampati per prodigio, chi per un ritardo, chi per un cambio turno, non vollero più saperne di tornare a lavorare in miniera e gli fu permessa un’occupazione diversa da quella mineraria. Gli altri 262, di cui 136 italiani, non rividero mai più i colori di quel triste giorno d’inizio agosto. La tragedia accomunò improvvisamente italiani e belgi e le differenze tra nazionalità furono annullate. Le «journal de Charleroi» recita: Un banale cortocircuito ha causato una delle più grandi catastrofi mai registrate nelle miniere belghe. Mentre l’Italia, come descritto da Dino Buzzati, si stava preparando a disporre gli animi e le cose al ferragosto, contemporaneamente a Bois du Cazier in Belgio, nell’inferno della miniera arroventata, si sta svolgendo la tremenda lotta per liberare i minatori chiusi dentro. Ad attirare l’attenzione dei diversi testimoni furono le donne, che pur non avendo notizie esatte sulla sorte dei loro congiunti in fondo al pozzo, avevano già iniziato la veglia funebre davanti ai cancelli. Si sentono le grida disperate:«arvì alla case, ariemecene all’Italia, meje pane e cipolle che puzze de carbone». I racconti spesso sussurrati con parole di altri tempi, sono divenuti un sottile ponte con un passato vicino ma sconosciuto. Cinque giorni dopo la tragedia le radio dicevano che c’era ancora speranza. Quando scesero a quota 1.035 trovarono un messaggio scritto su un pezzo di legno. Sì, c’era ancora speranza. Ma quando aprirono le porte del rifugio trovarono solo cadaveri. Un uomo, per salvarsi, aveva grattato disperatamente con le unghie per terra. Le cronache continuarono a dare voce al dolore finché il 24 agosto uno dei soccorritori diede l’annuncio, in italiano: “Tutti cadaveri”. In realtà le ricerche si protrassero anche dopo ad opera di altri minatori italiani che lottarono fino alla fine per ridare almeno alle famiglie dei corpi su cui piangere. Eroici soccorritori, tra molti pericoli, nel fumo, nel calore e nella puzza di bruciato e di morte cercarono, invano, eventuali superstiti.
In seguito un lungo oblio è sceso sui fatti di Marcinelle: i giornali hanno riposto i 262 minatori di Bois du Cazier e le loro famiglie in un angolo della storia italiana fino agli anni più recenti quando diversi contributi hanno riportato l’attenzione su ciò che accadde in Belgio nell’agosto del 1956. Ci sono ancora troppi lati oscuri, troppe cose che non sono state dette, tanti tasselli che attendono ancora di essere collocati nel posto giusto. Anche se per la commissione l’incidente fu causato dall’errore umano di un minatore, non fu formulato giudizio sulla protezione elettrica difettosa e sulla diretta relazione causa-effetto tra la negligenza e la catastrofe. Trovato il capro espiatorio in un ingegnere, la faccenda fu ritenuta conclusa.
Dopo l’8 agosto i ‘macaronì’ non furono più guardati e giudicati allo stesso modo. Italiani e belgi erano morti gli uni affianco agli altri, senza alcuna distinzione di sorta. Ma per chi è rimasto a casa la sensazione è la stessa: così muoiono gli italiani, che dalla disperazione della povertà trovano una spaventosa morte lontani dai loro affetti e con la vana speranza di rivedere la propria terra. L’invocazione è quanto mai attuale: «Adesso dobbiamo muoverci, adesso dobbiamo fare il diavolo a quattro, e se ci tocca di mandare italiani fuori dall’Italia, mandiamoli a vivere non a morire. Già ne abbiamo mandati troppi di italiani a morire per il mondo».