17 Lug I muri limitano le nostre libertà (ilCaffè – 17 luglio 2016)
Liberté, égalité, fraternité, principi divenuti universali più di due secoli fa, all’indomani della presa della Bastiglia. E proprio il 14 luglio, in una delle città meno francesi in senso lato, Nizza, si è dato l’ennesimo colpo, quasi mortale, alla quotidiana libertà. La libertà è probabilmente, più di ogni altro principio universale, quello fondante, la radice sulla quale si innestano tutti gli altri.
Molti, memori del massacro del Bataclan, hanno temuto per l’appuntamento degli europei di calcio, considerata la loro visibilità e l’alta partecipazione, ma per fortuna si sono svolti senza tragiche notizie. Istintivamente verrebbe da pensare – ma sarebbe un grave errore – che chi compie gli attentati, in questo caso il folle attentatore franco-tunisino, avesse voluto una tragedia prettamente francese più che mondiale. Sappiamo bene che così non è. Nizza rappresenta la Francia, quindi l’Europa e di rimando l’occidente. Provocare terrore nella quotidianità, più che il grande clamore durante manifestazioni già altamente monitorate, è indubbiamente l’arma più potente in mano a chi – di cui non sappiamo praticamente nulla – vuole in tutti modi colpire mortalmente una parte del mondo che, per la prima volta dopo secoli di sangue, ha conosciuto decenni di libertà sul suo territorio: l’Europa.
Tornando indietro al Novecento, pensiamo che è appena trascorso un secolo dagli accordi Skyes-Picot, del maggio 1916. Nel contesto della prima guerra mondiale, Inghilterra e Francia, con un accordo segreto, si spartirono le zone di influenza nel Vicino Oriente, immaginando lo scenario dopo l’imminente e prevedibile sconfitta dell’impero ottomano. All’Inghilterra spettò il controllo dell’area che comprende l’attuale Giordania e l’Iraq meridionale, alla Francia l’Iraq settentrionale, la regione siro-libanese e l’Anatolia sudorientale. I trattati del primo dopoguerra modificarono in parte gli accordi. Questi ultimi sono da molti considerati una delle cause principali degli attuali problemi del Vicino Oriente: i diplomatici Skyes e Picot furono accusati di tracciare le frontiere senza prendere in considerazione le diversità sociali, politiche, linguistiche e storiche dei territori interessati. Che è un po’ ciò che accadde durante la colonizzazione, per esempio ma non solo, in Africa.
Oggi la Francia rappresenta il bersaglio preferito per eccellenza. È il paese verso il quale i nuovi francesi – discendenti da popolazioni forzatamente colonizzate – scaricano la loro frustrazione per una mancata o non appropriata integrazione, ammesso che abbia senso parlare d’integrazione in senso onnicomprensivo. Che ci sia un problema tra una parte del mondo arabo-musulmano e grossa parte dell’Europa è indubbio, tuttavia il singolo fatto in Costa azzurra non spiega quello che sta accadendo.
A Nizza, in questi giorni, si è parlato spesso di inadeguatezza del sistema di controllo, di scarsa presenza della polizia, in altre parole di mancata militarizzazione del quotidiano. Durante gli ultimi europei e dopo l’11 settembre americano abbiamo già vissuto un notevole incremento dei livelli di controllo, a discapito delle libertà di spostamento tanto faticosamente conquistate. E queste, non solo in conseguenza dei fatti di sangue, stanno per essere definitivamente superate dalle crescenti paure figlie della strumentalizzazione populista, come per esempio sta accadendo in Inghilterra e in Svizzera, per citare solo i casi più recenti.
Volendolo dire in una maniera diversa e sottolineando che il nostro intento non è fare riferimento alla tradizione della dietrologia e del complottismo, tuttavia, gli ultimi eventi che hanno insanguinato la Francia, da Charlie Hebdo, al Bataclan fino alla strage di Nizza, fanno sorgere qualche interrogativo su eventuali strategie della tensione. Colpire la quotidianità significa accrescere le paure, la diffidenza e l’odio verso “l’altro”. Se quest’ultimo professa una fede religiosa a tratti radicale, che lede anche i diritti delle minoranze o delle donne, allora il dado è facilmente tratto. Alziamo muri, espelliamo persone, vietiamo il culto religioso, nella speranza che il mondo globalizzato nel quale viviamo, a volte inconsapevolmente, possa essere chiuso dietro un muro o una porta, che limita però le nostre libertà.
Eppure, c’è stato un momento nel quale questo presunto scontro tra mondo cristiano-europeo e Islam poteva essere indirizzato diversamente. Durante la conferenza di Barcellona del 1995 s’immaginò uno spazio euro-mediterraneo che avrebbe dovuto portare, nel 2010, verso una ridefinizione politica, economico-finanziaria e, in particolare, socio-culturale-umana tra le due sponde. Non mancarono grosse narrazioni: si scrisse e si parlò in maniera approfondita di Mediterraneo del Nord, inteso come l’insieme dei paesi dell’Unione Europea, e di Mediterraneo del Sud, paesi verso i quali guardare sia economicamente che culturalmente. Si discusse molto anche di quale dovesse essere la porta d’ingresso verso l’Unione Europea e il crescente mercato cinese. E poi, quanti confronti, molti annacquati e ancora in corso, sull’eventuale allargamento dell’Unione verso Sud o Est. Ci fu un momento in cui culture e religioni, dopo secoli, potevano trovare finalmente un punto d’incontro, un momento di crescita reciproca, anche economica. Come sappiamo, la storia andò diversamente. Si è preferito allargare verso Est, per ovvie ragioni. Occorreva una narrazione che giustificasse questa scelta. Le ragioni economiche, da sole, non erano sufficienti, allora si fece ricorso alle “radici cristiane” dell’Europa e la partita si chiuse. Nel frattempo, l’11 settembre prima e la non gestione e comprensione europea delle primavere arabe poi hanno fatto il resto.