(RadioCorriereTv) Quella brutta STORIA CHE PESA COME UN MACIGNO

Intervista al RadioCorriereTV consultabile online

01«Niente rumore. Solo, un vento terribile e i miei compagni volavano come farfalle. Poi ci fu un gran boato, e la fine. Auto­carri e bulldozer scaraventati lontano». È il racconto di uno dei sopravvissuti intervistati nel libro “Morire a Mattmark – L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana”, scritto da Toni Ricciardi, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra. Il volume è una precisa ri­costruzione di quanto accaduto, esattamente cinquant’anni fa, il 30 agosto del 1965, quando dal ghiacciaio svizzero dell’Allalin si staccò un’enorme valanga che travolse il cantiere per la diga del lago Mattmark. Ottantotto lavoratori, di cui cinquantasei italiani, morirono sotto la terribile massa di ghiaccio, fango e roccia. Tante povere baracche, a oltre duemila metri d’altezza, senza acqua calda, dove gli operai vivevano a temperature di meno trentacinque gradi furono spazzate via insieme alle loro vite.

Perché un libro su questa tragedia? Lei è parente di qualche vittima?
No, non ho parenti anche se sono nato nel sud dell’Italia. Mi sono posto l’obiettivo di recuperare dall’oblio Mattmark perché, per questa vicenda di migrazione e dolore che all’e­poca destò grande scalpore, non pagò nessuno nonostante l’instabilità del ghiacciaio fosse nota da tanto tempo. L’inchiesta durò più di sei anni e i diciassette imputati chia­mati a rispondere dell’accusa di omicidio colposo furono tutti assolti. In appello andò anche peggio visto che super­stiti e familiari delle vittime furono condannati a pagare il cinquanta per cento delle spese processuali. Eppure le condizioni economiche di orfani e vedove erano davvero disastrate: famiglie monoreddito che vivevano grazie alle rimesse del padre di famiglia.

E il governo svizzero non fece nulla?
Si mise in moto una grande macchina di solidarietà con la Fondazione Mattmark che si occupò degli ottantacinque orfani, con diecimila franchi per farli studiare, e vitalizi per le vedove. Oggi sono professionisti affermati anche grazie agli aiuti di quella tragedia.

In che contesto maturò il disastro?
Comincio dal principio: nel 1901 in Italia venne istituito il ministero dell’emigrazione, poi abolito negli anni del fasci­smo. Tra il 1946 e il 1948 nacque, invece, il ministero del Lavoro e della Previdenza sociale e furono messi in pie­di fino al 1955 numerosi accordi per l’emigrazione con il Belgio, la Svizzera e la Germania. Il più grande sistema di migrazione di mano d’opera che la storia ricordi. Non era avvenuto prima e non avverrà dopo. L’emigrazione fino alla metà degli anni Settanta, del secondo dopoguerra, è sta­ta il pilastro della politica economica del nostro Paese. Erano tutti concordi che l’emigrazione fosse “un male ne­cessario” ed è all’interno di questo contesto che si colloca Mattmark.

E cosa accadde dopo?
Il 1965 è uno spartiacque. Si rinnova l’accordo con la Sviz­zera e per la prima volta gli italiani stanziali superano, nel Paese elvetico, i lavoratori stagionali nonostante un sistema di accoglienza centrato sulla stagionalità. L’Italia vive il suo boom economico ed ha difficoltà a riconoscere quello che sta accadendo con le frotte di meridionali che arrivano nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. La stagione xenofoba, nata nel Novecento contro la pre­senza tedesca in Svizzera, riprende vigore e qualche mese prima vie­ne presentata la prima iniziativa referendaria anti-stranieri.

Un clima pesante per i nostri conna­zionali in Svizzera.
Abbastanza. Il se­condo Dopoguerra è più complicato perché l’Italia si era rimboccata le maniche e si av­viava al boom eco­nomico fino ad entrare poi nel club delle superpotenze. Nell’ottobre del 1964 fu inaugurato il casello dell’auto­strada del Sole a Napoli, che univa Milano al Sud e nel frattempo la provincia italiana cominciò a svuotarsi. Non si partiva solo dal meridione perché il Veneto fu il prin­cipale “fornitore di braccia” verso la Svizzera e altri Paesi europei. La meridionalizzazione del flusso migratorio arri­vò solo a partire dagli anni Sessanta.

Quale fu, all’epoca, l’atteggiamento della stampa internazio­nale?
Il modo di raccontare le catastrofi cambiò: con Marcinel­le s’inaugurò la diretta e a Mattmark se ne faceva una quotidiana con oltre duecento inviati da tutto il mondo. È un elemento importante. Per questo ci tengo a ricordare perché riflettendo su tragedie come queste, che ci hanno colpito da vicino, alcune posizioni populiste nel nostro Pa­ese si potrebbero smontare da sole.

Lucilla Perelli Rizzo RadioCorriereTv - 31 agosto 2015, pp. 42.

Lucilla Perelli Rizzo
RadioCorriereTv – 31 agosto 2015, pp. 42.

Ha incontrato molte difficoltà nel lavoro di ricerca?
Abbastanza, per molti fattori. Il progetto di ricerca è stato boicottato e per consultare gli archivi ci ho messo oltre sei mesi. Poi, quando finalmente ho aperto i faldoni, li ho trovati vuoti. Con i i riflettori nuovamente puntati su questa vicenda non si scoperchiava soltanto un singolo episodio, ma tutto un sistema. Nel 1972, anno in cui uscì la sentenza, la stampa elvetica parlò d’incredulità. Ma non c’è stata giustizia: una condanna, in quel caso, significava condannare un sistema economico produttivo, anche dei flussi migratori, che avrebbe potuto travolgere tutto. Ora, come allora, non piace che se ne parli. Soprattutto in Sviz­zera non si aspet­tavano la grande attenzione me­diatica che il libro sta riscuotendo in Italia.

Attualmente la si­tuazione in Svizze­ra qual è?
Hanno raccolto oltre centomila firme per abolire il risultato del 9 febbraio, quello proprio sull’immi­grazione. A lavo­rare nei ristoranti, negli alberghi e nei bar ci sono il sessanta per cento di immigrati, pochi italiani, che lavorano in nero. C’è invece una forte attra­zione per i “cervelli”. Io mi sono ritrovato a vincere una borsa di studio internazionale e poi sono arrivato a Gi­nevra. Comunque, nel bene e nel male, da loro dobbiamo prendere esempio, perché è un Paese che ha sempre mes­so al centro della politica la questione migratoria. Finché il tema viene analizzato solo dal ministero dell’interno, come avviene da noi, non si va lontano.

Sta scrivendo altro?
Ci sto pensando. Si tratta di un argomento che in parte ho sempre sfiorato negli altri miei scritti: la vicenda dell’in­fanzia negata, i bambini clandestini. Perché in Svizzera vigeva il divieto di ricongiungimento familiare. Vorrei capire perché la Svizzera ha trattato così l’infanzia. Ho trovato “pacchi” di espulsioni per neonati di pochi mesi…