(ilsole24ore) La valanga assassina sulla diga di Mattmark

Luigi Mascilli Migliorini il Sole24ore - 30 agosto 2015, p. 25.

Luigi Mascilli Migliorini
il Sole24ore – 30 agosto 2015, p. 25.

Cinquanta anni fa, il 30 agosto del 1965, alle 17,15, dal ghiacciaio dell’Allalin, nel Vallese svizzero, si staccarono due milioni di metri cubi di ghiaccio che in pochi secondi travolsero baracche, camion, bulldozer e con essi 88 operai che lavoravano nel cantiere dove si stava costruendo la diga di Mattmark. Come sempre accade in questi casi, qualche giorno prima qualcuno aveva cominciato a preoccuparsi. « Ragazzi, se quel crostone di ghiaccio si stacca, noi qui facciamo la morte del topo » aveva avvertito Bepi Cleber, figlio di una guida alpina, che di montagne se ne intendeva, non come quei suoi compagni di lavoro venuti dal profondo Sud, dalla Calabria di un paesino chiamato San Giovanniin Fiore, dove un po’ di Appennino, certo, si masticava, ma niente a che vedere con quei giganti vicino ai quali ora lavoravano. Troppo vicino, si diceva in giro, provando a far capire a chi avrebbe dovuto che quel cantiere era stato piazzato nel posto sbagliato, troppo sotto la montagna, troppo esposto ai capricci di una natura sempre ostile.
Gli ingegneri svizzeri – raccontano le cronache all’indomani della tragedia – non sembravano, però, preoccuparsene granché. Rispondevano con un sorriso a chi gli andava a raccontare che da cinque anni cadevano giù dei grandi pezzi di ghiaccio, assicurando che in Svizzera queste cose non potevano succedere. Queste cose, aggiungevano, era roba delle sudice miniere del Belgio, come a Marcinelle o di quei pressapochisti di italiani, come al Vajont, nemmeno due anni prima. Eppure in pochi secondi anche a Mattmark, nella impeccabile Confederazione Elvetica, venne giù tutto. «Il finimondo», ricorda a distanza di cinquant’anni Ottavio Turco, uno dei sopravvissuti, che mentre scappa viene buttato a terra dallo spostamento d’aria, si alza e dietro di lui non c’è più nulla, solo una montagna di ghiaccio e sotto Nando, l’amico col quale stava fuggendo che per un secondo di troppo si era fermato a guardare.
«Catastrofi del fordismo»: ha ragione l’autore, Toni Ricciardi, un giovane studioso dell’emigrazione italiana che lavora all’Università di Ginevra, a chiamare così una tragedia che non si racconta solo – come non possono raccontarsi nemmeno Marcinelle o, a maggior ragione , il Vajont, solo come frammenti della storia, dolorosissima, della nostra emigrazione. C’è anche questo, ovviamente, se tra gli ottantotto lavoratori che morirono in quel pomeriggio di agosto, cinquantasei erano italiani, calabresi molti – come si è detto – ma ancor più veneti, bellunesi, a ricordarci di un’Italia unita allora nel bisogno assai più di quanto lo sia oggi nel benessere. E, dunque, Mattmark è stazione di una Via Crucis che in altri tempi aveva varcato l’Oceano e che ora si ritrova nelle valli di un Cantone svizzero che è stato povero anch’esso, anch’esso terra di frontiera e terra di migrazione prima di diventare, con la grande industrializzazione a cavallo tra le due guerre, luogo di risicata accoglienza dopo essere stato luogo di abbandoni obbligati dalla fame.
Ma il sorriso ottuso degli ingegneri della Elektro-Watt, quel lasciar scivolare tra le loro rassicurazioni un « ma noi non siamo italiani», non parla solo il linguaggio (diventato ormai familiare anche a noi oggi) di chi ha scordato troppo presto la precarietà della miseria e si aggrappa con miseranda sicumera alle certezze della nuova ricchezza. Quelle sicurezze, quella sicumera, sono soprattutto il colore di un’epoca in cui gli straordinari successi della industrializzazione, i benefici inimmaginabili solo poco tempo prima che essa aveva consentito ad una parte rilevante dell’umanità, non ammettevano -o forse basterebbe dire più semplicemente non consentivano- ripensamenti. La scienza e la tecnologia che avevano sorretto quel processo storico non lasciavano campo a molti dubbi, soprattutto in quel cuore dell’Europa –tra la Germania, la Francia, la Svizzera- dove l’organizzazione industriale aveva segnato i suoi risultati più significativi. E, senza dubbi, anche la perdita di qualche diecina di vite umane diventava un “effetto collaterale” doloroso, ma di trascurabile importanza sul piano generale.
Mattmark, però, e sta qui il senso profondo di quella tragedia e il valore del libro che oggi ne parla, suonò cinquanta anni fa un campanello di allarme. La nuova società che proprio l’industrializzazione aveva aiutato a nascere non poteva sopportare più a lungo che le “catastrofi” accompagnassero lo svolgimento futuro della propria vita. Si trattava allora, soprattutto di costi umani, si sarebbe trattato poi, col tempo, di costi ambientali e di sostenibilità delle risorse. Quello che accadde nei mesi, negli anni ( più di sei) che seguirono, l’interminabile vicenda giudiziaria, l’assoluzione dei principali responsabili della ElektroWatt, con la coda della condanna dei familiari delle vittime al pagamento delle spese processuali, aiuta a capire ancor di più l’ampiezza dell’orizzonte apertosi il 30 agosto 1965. Mentre, leggendo, pensiamo ad una storia di senza- terra, a barconi che oggi arrivano a Lampedusa o a Kos e che ieri approdavano, per dir così, tra le montagne alpine, la scena cambia sensibilmente. Vengono in mente le morti sul lavoro, le infinite denunce che si levano anche da tribune assai alte contro lo stillicidio quotidiano frutto della stessa noncuranza, senti la domanda di giustizia, sempre difficile ad ottenersi, spesso negata. E forse, mentre rivedi il sorriso dei tecnici elvetici, ti chiedi se il postfordismo non sia, oggi, persino più straccione e più cinico.