31 Ago (il caffè) Sotto il ghiaccio di Mattmark il dramma della migrazione
Faticosamente abbiamo iniziato più di qualche anno fa a cercare di recuperare dall’oblio una pagina di storia di questo paese: la catastrofe di Mattmark del 30 agosto 1965 – di cui proprio oggi si ricorda il cinquantenario. Ma che cos’è Mattmark e perché è importante per la nostra storia?
Mattmark è un incidente sul lavoro, il più grave del secondo dopoguerra. Ottantotto persone perirono sotto due milioni di metri cubi di ghiaccio. Già questa prima affermazione, che oggi solo pochi contestano, è un indizio di quanto quel periodo fu complicato. Nell’immediato la catastrofe fu etichettata come naturale e fu esclusa ogni qualsivoglia responsabilità umana. Furono veramente in pochi a mettere in discussione quest’analisi e chi lo fece fu tacciato di essere comunista o incompetente e di volere turbare la quiete e la serenità del Paese.
Nel 1972, dopo sette anni, il processo confermò la tesi del disastro naturale e, progressivamente, calò il silenzio su questa pagina di storia. Solo oggi, cinquant’anni dopo – grazie ad una lunga ricerca in archivi mai aperti – si sa non solo che la catastrofe era evitabile, ma soprattutto che una specie di omertà si era creata attorno al fascicolo Mattmark: testimoni cambiarono opinioni, operai non furono ascoltati, rapporti scientifici furono manipolati. Come spiegare tutta quest’omertà? La Svizzera terra di ingiustizie? In un certo senso si può affermare oggi che la politica nei confronti della migrazione, prevalentemente italiana negli anni del secondo dopoguerra, introdusse un regime democratico di facciata, umano e giusto per gli svizzeri, ma anche una specie di Apartheid. Stagionali senza diritti di residenza, obbligati a nascondere la famiglia, sicurezza sociale parziale – visto che si pagavano i contributi, ma non si potevano riscuotere -, nessuna cittadinanza politica, anzi interdizione di organizzarsi politicamente in quanto stranieri, privilegio degli svizzeri sul mercato del lavoro. Queste erano solo le discriminazioni legali. A ciò si aggiunse un regime di sfruttamento fino all’esaurimento dei lavoratori e delle lavoratrici nell’industria e nelle costruzioni – che Alexander Seiler filmò per primo, nel lontano 1964, nel suo “Siamo italiani”. Erano giovani e forti e solo dopo molti anni “si rompeva” questa merce umana, quando furono rinviati in Italia o quando tornavano volontariamente, visto che in Svizzera l’assicurazione contro la disoccupazione non esisteva e che in periodi di crisi i primi ad essere licenziati erano sempre e comunque gli stranieri. Mattmark mostra questa realtà di sfruttamento e di mercificazione umana in tutta la sua drammaticità. Non sono morti uomini, volendo interpretare Max Frisch, ma braccia straniere, facilmente sostituibili. In quel periodo, le italiane e gli italiani in Svizzera non furono solo discriminati legalmente e sfruttati nel mercato del lavoro, ma furono anche vittime della xenofobia quotidiana. Ad esempio, venne loro interdetta l’entrata i certi ristoranti quasi a ricordare il tristemente famoso “Juden werden nicht bedient” (gli ebrei non vengono serviti). Innumerevoli sono i racconti del disprezzo vissuto dagli italiani in Svizzera e Mattmark fu l’ennesimo schiaffo, questa volta documentato, in presa diretta 24 ore su 24, dalla televisione e dalla stampa di tutto il mondo.
Chi tollerava la xenofobia quotidiana si ribellò. Chi non sopportava o non era a conoscenza della vita dei migranti in Svizzera uscì allo scoperto. Nacque un’opinione pubblica svizzera consapevole della situazione difficile vissuta da queste lavoratrici e lavoratori e soprattutto crebbe una ampia e diffusa solidarietà che si manifestò nella raccolta fondi a favore dei familiari delle vittime di Mattmark. Il ghiaccio assassino scosse anche le coscienze della Svizzera. Da allora i movimenti xenofobi si ritrovarono di fronte altrettanti movimenti di solidarietà con cui confrontarsi nei decenni a venire sulla questione migrazione.
Vi è certamente un nesso tra Mattmark e la cronaca degli ultimi mesi, dove i continui drammi della migrazione accendono dibattiti importanti sul come gestire le diseguaglianze economiche, anch’esse figlie della migrazione. La questione sembra irrisolvibile, occorre comunque partire dal presupposto che ha fatto vivere e sopravvivere l’umanità fino ai giorni nostri: il rispetto della dignità umana.
I fatti
A Mattmark non ci si fermava mai, si lavorava giorno e notte per costruire un’imponente diga capace di produrre l’energia necessaria a un paese, la Svizzera, che stava vivendo una crescita economica senza precedenti. Nel cantiere lavoravano più di mille persone, in maggioranza straniere e provenienti soprattutto dalla provincia italiana. La “piccola” Svizzera accoglieva da sola quasi il cinquanta per cento dell’intero flusso migratorio della vicina Italia, dando occupazione a operai impegnati in grandi opere, come la diga di Mattmark. Ma il 30 agosto 1965, in pochi secondi, accadde l’irreparabile.
Alle 17.15 di quel maledetto lunedì, due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti si staccarono dal ghiacciaio Allalin e travolsero la mensa, le baracche, le officine del cantiere. Ottantotto persone persero la vita. Più di due terzi erano straniere, la stragrande maggioranza italiane. Le altre vittime svizzere, perlopiù vallesane, dell’Alto Vallese che, come in altre parti dell’Europa di quegli anni, riposero le proprie speranze nella grande opera pur di vedere terminare la propria fuga all’estero o in altre parti della Confederazione. Mentre nel Ticino – che pure a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento aveva conosciuto una profonda emigrazione – la presenza straniera si era ormai stratificata, nell’Alto Vallese si ebbe l’impressione di essere accomunati tutti dallo stesso destino, dalle stesse speranze che il progresso, che questa grande opera alleviasse i destini di chi arrivava e di chi evitava di partire. Dimenticata dalla stampa, che pure in quegli anni né parlò tantissimo, dalla politica che probabilmente è stata troppo presa dalle contingenze quotidiane, ma soprattutto da grossa parte della società civile, la stessa che poco più di quarant’anni fa – era il 1972 anno del processo – ebbe la forza di indignarsi prima per l’assoluzione degli imputati e successivamente per la condanna, in appello, al pagamento del 50% delle spese processuali a carico dei familiari delle vittime.
La motivazione
La ricerca è nata con l’ambizione di ricostruire, o forse meglio, costruire una triplice memoria. Innanzitutto di contesto: eravamo in piena Guerra fredda, da una parte l’Italia con il più grande partito comunista dei Paesi occidentali e dall’altra la Svizzera e il riaffacciarsi dopo decenni di assopimento dei sentimenti antistranieri. Successivamente, una memoria individuale, attraverso le testimonianze dei tanti sopravvissuti e dei familiari delle vittime che, con i loro dettagli, hanno contribuito a raccontare e ricostruire pezzi di questa storia altrimenti sconosciuti. Infine, memoria collettiva, per riannodare i fili più volte spezzati di un dialogo tra diversi e, soprattutto, coltivando il desiderio di accendere i riflettori su un’amara pagina di storia, non solo svizzera – bensì, europea – che per troppo tempo, cinquant’anni appunto, è stata ingiustamente dimenticata.