(l’Unità) Quella tragedia dimenticata. Mattmark come Marcinelle

[l’Unità, 26/08/2915] Cinquanta anni fa, il 30 agosto 1965, una valanga seppellì 88 lavoratori. Tutti gli imputati furono assolti. La ricostruzione del dramma svizzero in un libro edito da Donzelli che qui anticipiamo.

Carissima Moglie,
stasera ho ricevuto la tua cara e da me tanto desiderata lettera quale sono contento a sentire che voi state tutti bene e così fino al momento che scrivo vi assicuro di me. Dunque mia carissima bambola riguardo a quanto mi dici che vuoi sapere se lavoro di notte o di giorno, questi sono lamenti che io non sono capace a raccontarteli nelle lettere e quindi per favore non chiedermi più queste sciocchezze. Parlami di cose serie perché anche se io ti mando a dire questo tu non hai niente che farmi e questo sarebbe un pensiero in più che ti metti in testa quindi credo che mi hai capito. […] lunedì è arrivato Francesco e mi ha portato il pacchetto mi fai sapere se sei andata a farci la visita. Tu mi hai mandato tre soppressate, ma potevi fare anche un bigliettino nel pacchetto perché per me era più caro un tuo sentire che le tre soppressate. Mi fai sapere come se la passano i miei cari figli, se Giovanna ha incominciato a chiamarmi, se Angela va in bicicletta a due ruote, come va Paolo a scuola se ancora va al doposcuola oppure no e ti ho detto già molte volte di farlo imparare a scrivere le lettere perché se mi fai scrivere un biglietto ogni lettera per lui sarebbe utile ma tu di questo non ne vuoi sapere, vuoi sapere solo se io lavoro di giorno o di notte. Non ho altro passo ai più cari saluti, saluto e bacio i tuoi genitori.
Saluto tutto il vicinato, saluto e bacio i miei figli In ultimo abbraccio e bacio a te

Tuo Peppino.

L'Unità - 26 agosto 2015, p. 21.

L’Unità – 26 agosto 2015, p. 21.

Nel cantiere
Nel cantiere di Mattmark non ci si fermava mai. Si lavorava 24 ore su 24, sei giorni su sette. Contrattualmente, un operaio lavorava 59 ore la settimana e se ne aveva voglia anche 15-16 ore al giorno, domenica e festivi compresi. Negli anni sessanta, in Svizzera – paese che ha vissuto una crescita economica senza precedenti dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni settanta – questa era la quotidianità.
In quel periodo, mentre l’Italia costruiva faticosamente una sua immagine diversa raccontando al mondo il boom economico, l’emigrazione si andava progressivamente meridionalizzando. L’Appennino iniziava la sua lenta e irreversibile desertificazione.
Dall’Irpinia all’Abruzzo, dalla Sila alle coste salentine, il Mezzogiorno si svuotava senza sosta, mentre la piccola Svizzera accoglieva da sola quasi il 50% dell’intero flusso migratorio italiano: più di 2 milioni e mezzo di persone, dall’immediato secondo dopoguerra e fino agli anni ottanta. Molte furono impegnate nella costruzione di grandi opere, come la diga di Mattmark. Lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, che ancora oggi rappresenta la fonte principale di approvvigionamento della Confederazione, fu fino agli anni sessanta quasi l’unica risorsa energetica – prima di essere affiancata dal nucleare – grazie alla quale crebbe l’industria e venne accelerata la modernizzazione del paese. E proprio mentre si stava per raggiungere un altro traguardo della nouvelle politique d’industrialisation, inaugurata negli anni cinquanta, nel Vallese, in cui si trovano due terzi dei ghiacciai del paese e storicamente una delle «individualità» più particolari dell’intera Svizzera, accadde l’irreparabile. In 30 secondi cambiò la storia.
Lunedì 30 agosto 1965 una valanga di più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio seppellì 88 dei lavoratori impegnati nella costruzione della diga in terra più grande d’Europa. Di questi, 56 erano italiani. Come a Marcinelle, la tragedia determinò un momento di cesura nella lunga e travagliata storia dell’emigrazione italiana, segnando un punto di non ritorno. La catastrofe suscitò molto scalpore in tutta Europa: per la prima volta, stranieri e svizzeri morivano l’uno a fianco all’altro, accomunati tutti, senza alcuna differenza, dallo stesso dolore. Fu la provincia di Belluno, con 17 vittime, a essere la più colpita, insieme al Comune di San Giovanni in Fiore (Cosenza), che perse 7 uomini. Il dolore toccò tanti borghi di provincia da Nord a Sud, fino a quel momento sconosciuti, come Acquaviva di Isernia, Gessopalena oppure Bisaccia e Montella, Gagliano del Capo, Tiggiano e Ugento e, ancora, Uri, Senorbì e Orgosolo, Castelvetrano, Cormons e molti altri.
Alcuni superstiti, di cui questo libro raccoglie ricordi e testimonianze, dichiararono: «Chiedere a noi perché sia accaduto tutto questo è come chiederlo al ghiacciaio muto. Chiederlo agli uomini? Si ottengono parole che non bastano neppure a suturare le piaghe aperte e sanguinanti».
Nei giorni successivi alla tragedia non c’era tempo per analizzare quanto era successo: bisognava scavare con la speranza di trovare ancora vivi amici, padri, fratelli, figli.Ci vollero più di sei mesi per recuperare i resti dell’ultima salma. Questa storia, come Marcinelle, si concluse nel modo peggiore. I tempi dell’inchiesta furono lunghissimi, oltre sei anni, e i diciassette imputati chiamati a rispondere all’accusa di omicidio colposo furono tutti assolti, nonostante l’instabilità del ghiacciaio fosse nota da secoli. In appello andò anche peggio: assoluzione confermata e familiari delle vittime condannati al pagamento delle spese processuali. Le reazioni furono di profondo sdegno e incredulità, anche perché la tragedia era stata molto seguita dai media e la commozione per il Vajont era ancora forte.L’oblio nel quale è caduta questa pagina dell’emigrazione italiana fa parlare di Mattmark come di una Marcinelle dimenticata. Questo libro, a cinquant’anni dalla tragedia, sfida quell’oblio attraverso una ricostruzione, il più possibile attenta e documentata, di quanto avvenne. La parola è lasciata alle fonti. La storia è stata ricostruita attraverso le fonti d’archivio svizzere e italiane, integrate con il racconto della stampa del l’epoca e, soprattutto, con quello dei sopravvissuti. Per la raccolta delle loro testimonianze è stata determinante la collaborazione dell’Associazione dei bellunesi nel mondo (Abm), nata nel 1966, come reazione a quanto successo a Mattmark. Negli ultimi decenni, l’Abm ha rappresentato l’unico presidio che ha cercato, faticosamente, di conservare la memoria di quanto accaduto in quel tragico 30 agosto del 1965.