Mattmark. Un mare di ghiaccio travolse gli operai

Il 30 agosto del 1965 ottantotto persone impegnate nella costruzione di una diga in Vallese persero la vita.
Lo storico Toni Ricciardi ricostruisce le cause e le responsabilità di quella immane tragedia del lavoro

Paolo Grieco Corriere del Ticino - 25 agosto 2015, p. 3..

Paolo Grieco
Corriere del Ticino – 25 agosto 2015, p. 3.

«Guardateli, via via che i soccorritori li allineano per terra, supini, uno accanto all’altro… Guardateli per l’ultima volta. Non sono belli e tremendi?». L’enfasi dell’articolo di Dino Buzzati sul «Corriere della Sera» per commentare la sciagura di Mattmark, nel canton Vallese, del 30 agosto del 1965, riflette la commozione della stampa italiana. In meno di trenta secondi, più di due milioni di metri cubi di ghiaccio si riversarono sul cantiere e le baracche degli operai. Ottantotto persone persero la vita, tra loro 56 italiani e 23 svizzeri. Al di là del dolore e del turbamento per quei morti, la reazione dell’opinione pubblica fu anche di sdegno. Ci si chiese come mai gli ingegneri non fossero riusciti a prevedere la pericolosità della lingua del ghiacciaio Allalin. Ne parliamo con Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra, autore del volume «Morire a Mattmark. l’ultima tragedia dell’emigrazione italiana», edito da Donzelli, che consente di considerare il contesto e le sfumature di una vicenda tragica che ha fatto versare molto inchiostro.

C’è chi osserva che i giornali elvetici gestirono con maggior distacco la tragedia del Mattmark rispetto a quelli italiani. È vero?
«L’impostazione della stampa dei due Paesi fu diametralmente opposta e fortemente influenzata dal contesto geopolitico e politico interno. In piena Guerra fredda le prese di posizione furono, ovviamente, diverse. Per quanto attiene alla stampa italiana, molte testate diedero spazio e risalto agli aspetti emozionali della vicenda, anche se, nemmeno trascorsa una settimana, iniziarono ad interrogarsi sulle cause e le responsabilità. In più, i giornali di sinistra – su tutti “l’Unità” e in tono minore “l’Avanti!” – utilizzavano i fatti di Mattmark per scagliarsi contro il capitalismo tout court e soprattutto contro l’allora Governo Moro. Sul versante svizzero, invece, da subito fu rimarcata l’imprevedibilità della catastrofe. Successivamente, fu dato grosso risalto all’organizzazione dei soccorsi e alla generosità della Svizzera». Ma qualche voce diversa ci fu anche in Svizzera. «Anche nella Confederazione non mancarono le voci fuori dal coro, che nel breve periodo si trasformarono in prese di coscienza, sul grande contributo che gli stranieri offrivano allo sviluppo e alla crescita del Paese. Si tenga presente che qualche mese prima della catastrofe era stata depositata la prima iniziativa antistranieri e quindi il clima interno era abbastanza surriscaldato. Diverso invece fu il commento sul processo. Mentre la stampa italiana premeva sulla questione della commissione d’inchiesta e s’indignò unanimemente per il trattamento riservato ai familiari delle vittime, quella svizzera nel 1972 – altra epoca storica – si schierò quasi tutta a favore degli indiziati».

Oltre a non aver previsto che il ghiacciaio si stava muovendo per il caldo e per le piogge ci fu l’accusa di aver tenuto un comportamento discriminatorio nei confronti degli italiani.
«Bisogna considerare che erano gli anni Sessanta e il clima nei confronti degli stranieri, italiani inclusi, non era dei migliori. Nel libro la vicenda è trattata marginalmente, soprattutto grazie alle testimonianze e ai racconti delle prime impressioni dei giovanissimi lavoratori che giunsero nei paesini della Valle del Saas. Poi, il resto è storia. D’altronde, a partire dal 1965 e per più di un decennio, la politica svizzera fu interessata, quasi investita, dal problema immigrazione. E poi, Schwarzenbach, contro l’inforestieramento, ovvero contro gli stranieri, ne fu la prova schiacciante». Dal processo che assolse gli imputati e che in appello condannò i familiari delle vittime a pagare una parte delle spese processuali, al fatto che la necessità di energia idroelettrica, quando la diga fu completata il 25 giugno del 1969, in Svizzera era venuta di gran lunga meno per le centrali atomiche.

Un errore di calcolo?
«Né nell’uno né nell’altro caso si può parlare di errore di calcolo. Nel primo caso, come sostenne la commissione d’inchiesta, le cause furono di tipo naturale, ma l’alto numero di vittime fu dovuto alla negligenza umana, essendo la catastrofe stata provocata dalla scarsa conoscenza e dalla superficialità dei tecnici e dei progettisti. Per quanto riguarda le fonti energetiche la produzione nucleare, come prima quella idroelettrica, rappresentava la nuova frontiera dello sviluppo. Oggi si è visto che la Svizzera, come altri Paesi europei, si è avviata alla progressiva dismissione delle centrali nucleari quindi l’idroelettrico fu un calcolo corretto».

Cosa dire del processo?
«Il processo va visto in un quadro d’insieme un po’ più ampio. Avvenne nel 1972, in un’epoca diversa rispetto all’anno della tragedia: condannare gli imputati avrebbe significato condannare un sistema, un Paese, un modello. E in più, va ricordato che non ci fu né prima né dopo una catastrofe che abbia erogato contribuiti e indennità in denaro ai familiari delle vittime: ad esempio la Fondazione Mattmark erogò più di 4,5 milioni di franchi e la Suva oltre 60».

Si parla spesso degli episodi di ostilità verso gli italiani emigrati, è però innegabile che nella Confederazione molti di loro hanno trovato benessere e una speranza che l’Italia non era in grado di dare.
«Questo è indubbio. Tuttavia, sia in Svizzera sia in Italia non furono tutte rose e fiori. È necessario conoscere la storia e farla conoscere soprattutto alle giovani generazioni, per evitare da un lato, il ripetersi di razzismo e xenofobia, e dall’altro per fare in modo che continuino a ripetersi comportamenti rispettosi».

Alla luce dei fatti di Mattmark che cosa si può fare per evitare che una tragedia del lavoro si trasformi in un conflitto xenofobo?
«Spesso la non conoscenza, il non ricordo, il continuo alimentare delle paure – questo sì in maniera strumentale – erigono muri che non servono. Francamente non so quanto Mattmark abbia inciso nel rifiuto all’epoca dei referendum antistranieri, tuttavia, con ogni probabilità, ebbe un peso, anche inconscio».