19 Ago (Corriere della Sera) Uccisi dal ghiaccio e dall’incuria. Destino da italiani a Mattmark
Bastarono trenta secondi per seppellire 88 lavoratori sotto due milioni di metri cubi di ghiaccio. 56 erano italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci e un apolide. Accadde a Mattmark, nella valle svizzera di Saas, Canton Vallese, alle 17 e 15 del 30 agosto 1965, dove lavoravano più di mille persone, in maggioranza provenienti dalle province italiane (la provincia più colpita fu Belluno). «Niente rumore. Solo, un vento terribile e i miei compagni volavano come farfalle. Poi ci fu un gran boato, e la fine», così parlò Mario Vieleli, un operaio bellunese sopravvissuto qualche ora dopo la tragedia, senza sapere che l’ultimo cadavere sarebbe stato trovato sei mesi dopo.
Il ghiacciaio Allalin, a duemila metri, si muoveva da tempo, mentre si lavorava alla diga più grande d’Europa: cadute di pezzi di ghiaccio e slavine erano all’ordine del giorno, come gli incidenti, ma quasi nessuno, tra i tecnici e gli ingegneri della Elektro-Watt, la società committente, se ne preoccupava. Priorità alla sicurezza della diga rispetto alla sicurezza degli operai. Nessuno pensò che sistemare le mense, le cantine, gli uffici, le baracche esattamente in linea diretta rispetto alle pendici del ghiacciaio fosse pericoloso, pur avendo il vantaggio di rendere più rapidi ed efficienti gli spostamenti verso il cantiere. Per capire come e quanto il Vallese, sin dal Settecento, fosse una sorta di metonimia della svizzeritudine nel passaggio cruciale dalla società rurale a quella industriale, bisogna leggere Toni Ricciardi, Morire a Mattmark (Donzelli): «paradiso alpino» per eccellenza all’epoca del Grand Tour, terra di contadini e di emigranti, destinata a diventare meta di immigrazione operaia con la costruzione della ferrovia a fine Ottocento, e poi con i trafori e la produzione idroelettrica.
Il libro di Ricciardi è una attenta ricostruzione (con documenti di prima mano e testimonianze orali) dell’ultima tragedia dell’emigrazione italiana nelle sue dinamiche sociali e politiche. Una tragedia dimenticata, come e forse più di Marcinelle. Molte sono le analogie con la catastrofe mineraria dell’8 agosto 1956, se si pensa che a quasi un decennio di distanza è rimasta pressoché immutata l’incoscienza istituzionale nei confronti dei propri emigranti mandati a lavorare in condizioni bestiali con tanto di accordi internazionali.
Basti pensare che per rendere omaggio ai morti di Mattmark, esattamente com’era avvenuto con Marcinelle, nessuna autorità dello Stato italiano sentirà il dovere di muoversi; solo grazie alle pressioni sociali e delle opposizioni, il governo Moro (come il governo Segni del 1956) chiederà alle autorità straniere di fare chiarezza sull’incidente; tante le promesse ma pochi nella realtà gli sforzi per sostenere economicamente le famiglie colpite. Il solito rituale italiano, in cui è compreso anche lo sciacallaggio politico. Senza dimenticare il razzismo locale proprio nel periodo in cui partivano le prime iniziative xenofobe: i «verboten!» appesi sulle porte dei luoghi pubblici, gli appellativi ingiuriosi contro i meridionali, che da «negri» sono diventati «tschingg, tschingg» (zingari). E, dulcis in fundo, un’esigenza di giustizia, invocata a gran voce, che si risolve senza condanne (17 gli imputati), benché la commissione d’inchiesta, dopo ben sei anni!, avesse individuato precise responsabilità nella mancanza di misure preventive (viste le condizioni meteorologiche) e nella collocazione delle baracche ai piedi del ghiacciaio. Il primo grado, che sostenne la tesi della «catastrofe naturale» tout court , arriva nel febbraio 1972. Sentenza confermata in appello, dove si aggiunge la beffa per i famigliari delle vittime di vedersi condannati a pagare le spese processuali. Una «crudele buffonata», la definì il fratello di una vittima, che fece scandalo in Italia, ma che in Svizzera passò in sordina, nonostante la levata di scudi delle istituzioni internazionali. Una catastrofe annunciata. Operai (specie gli italiani) sottoposti a orari di lavoro fuori controllo, fino a 16 ore al giorno spesso anche la domenica, con temperature che raggiungevano i 35 gradi sotto lo zero (per gente non abituata alla neve e al gelo), vivendo in pessime condizioni igieniche dentro baracche sovraffollate, a volte senza riscaldamento e senza bagni, con le condutture dell’acqua congelate, con tetti che il vento spazzava via. E i rischi per la salute: la polvere incessante dei camion, i gas dentro le gallerie, le ferite e le infezioni. Gli incidenti, anche prima di quell’agosto 1965, si ripetevano e i morti «stagionali» diventavano laconiche notizie in cronache locali estremamente evasive. Le valanghe, poi, vengono comunicate all’opinione pubblica mesi e mesi dopo, anche quando travolgono una mensa intera, com’è successo nell’aprile 1963. Gli operai italiani morti sul lavoro in Svizzera tra gli anni Sessanta e Settanta sono più di mille: sei mesi dopo Mattmark a Robiei, in Valle Maggia, muoiono 17 operai, 15 dei quali italiani. Ma la consapevolezza delle condizioni di precarietà in cui si lavorava a Mattmark esplode con la frana di cinquant’anni fa, che mette definitivamente in dubbio l’immagine dell’affidabilità in un Paese come la Svizzera. Ma crea anche una nuova solidarietà in chi vede nella morte di operai elvetici a fianco degli stranieri una ingiustizia comune da combattere. «Chiedere a noi perché sia accaduto tutto questo — dirà il cappellano del cantiere di Mattmark — è come chiederlo al ghiacciaio muto. Chiederlo agli uomini? Si ottengono parole che non bastano neppure a suturare le piaghe aperte e sanguinanti». Preceduto da innumerevoli controversie sugli appalti, il lavoro all’invaso cominciò nel giugno 1960, accompagnato da opere infrastrutturali per un costo previsto di 380 milioni di franchi, lievitato a 490. Il 2 settembre, tre giorni dopo la tragedia, un cartello campeggiava nei cantieri di Mattmark: «Mettere tutto in ordine e finire l’opera». Questo era l’obiettivo primario, rassicurare la popolazione locale che non si sarebbe ripetuto un altro incidente simile e terminare il lavoro senza altri guai. La diga sarebbe stata inaugurata il 25 giugno 1969, alla presenza di 380 persone tra autorità religiose, civili, militari e politiche. Il presidente del consiglio d’amministrazione della Società idroelettrica, Arthur Winiger, nel suo discorso ufficiale, ricordò l’incidente che quattro anni prima aveva «fortemente intaccato la gioiosa operatività del cantiere».