(il Fatto Quotidiano) L’ultima strage. 50 anni fa Mattmark, la diga Svizzera

ilFatto quotidiano - 19 agosto 2015, p. 21.

ilFatto quotidiano – 19 agosto 2015, p. 21.

Salvatore aveva 17 anni quando fu portato dal padre Umberto a lavorare nel cantiere di Mattmark (Svizzera) – dove si costruiva la diga in terra per l’epoca più grande d’Europa –, a quota 2.200 metri: «Mio padre mi ha portato a morire. Mi giravo, mi guardavo attorno e vedevo solo neve, tanta neve».
Eppure Salvatore e Umberto venivano da Montella (Avellino), terra dell’osso, da quella parte di Mezzogiorno dove nemmeno “il Cristo” volle arrivare. I due partirono per Saas-Almagell, villaggio del Canton Vallese che contava poco meno di 400 abitanti – «37 case» – e che alla fine degli anni Cinquanta si vide improvvisamente invaso da più di mille stranieri. Erano operai, perlopiù stagionali e in stragrande maggioranza italiani provenienti dalla provincia che tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta assistette, inesorabile e quasi inerme, al suo primo e profondo svuotamento.
Si partiva, partivano soprattutto uomini per mezza Europa e la stragrande maggioranza di essi, fino al 1976, si diresse a flotte verso la vicina Svizzera che, dal 1958 al 1976, accolse quasi il 50% dell’intera emigrazione italiana all’estero (ancora oggi in Svizzera risiede la terza comunità di italiani nel mondo). La Confederazione elvetica, uscita intatta dalla seconda guerra mondiale, necessitava di braccia a buon mercato per lo sviluppo del proprio sistema industriale. Se nell’immediato le fu impedito dagli alleati di attingere al bacino di attrazione naturale – Germania e Austria – poteva comunque procurarsi una quantità immensa di umanità a basso costo pronta e a disposizione. L’Italia, infatti, aveva già avviato, nel 1946 con il Belgio, la sua stagione d’oro d’esportazione di donne e di uomini, soprattutto i secondi: venivano offerte braccia in cambio di carbone. Nel 1948, siglò l’accordo con la Svizzera e negli anni seguenti con le nazioni di mezzo mondo, tra le quali la Germania nel 1955. Nel mentre, il Bel Paese, uscito a brandelli dalla dittatura e dal conflitto mondiale, era impegnato a raccontare al mondo il proprio boom economico, la dolce vita e si apprestava ad entrare tra le superpotenze mondiali. Nell’immaginario collettivo erano gli anni dei Basilischi (1963), film con il quale debuttò la Wertmüller raccontando le contraddizioni della provincia meridionale, e allo stesso tempo, nell’ottobre del 1964 si inaugurava il casello autostradale di Napoli, rappresentazione plastica di un paese che faticosamente stava cambiando.
I bastimenti erano ormai un ricordo da incorniciare, un passato conosciuto ma lontano, quasi idealizzato. Tuttavia, milioni di italiani continuavano ad emigrare, con cifre sempre maggiori ma verso l’Europa, rappresentando un «male necessario», una «valvola di sfogo», un prezzo da pagare per la nuova e rinata Italia. E se poi, come in quel tragico 8 agosto del 1956 a Marcinelle accadeva la catastrofe, essa era un sacrificio amaro da versare per la rinascita dell’Europa martoriata. Come a Charleroi – dove per la prima volta la televisione e la radio seguirono in diretta i momenti più tragici dell’attesa e del lutto – anche a Mattmark si recarono oltre duecento giornalisti svizzeri e corrispondenti dal tutto il mondo. Le immagini delle baracche sepolte sotto oltre 2 milioni di metri cubi ghiaccio e detriti fecero il giro del globo.
Alle 17.15 di lunedì 30 agosto 1965 persero la vita 88 tra operai, tecnici ed ingegneri degli oltre 700 impegnati in quel momento nella costruzione della diga. In meno di 30 secondi, le baracche, la mensa e le officine furono sepolte sotto oltre 50 metri di ghiaccio, ghiaia e sassi. La fase dei soccorsi fu complessa ed emotivamente molto toccante perché furono gli stessi colleghi di lavoro a effettuare, insieme all’esercito, il recupero delle salme, o meglio, di ciò che rimase delle stesse. Ci vollero più di sei mesi per recuperare i resti dell’ultimo corpo.
La montagna di ghiaccio aveva inghiottito la vita di 88 persone, 86 uomini e 2 donne. Come a Monongah nel 1907, a Dawson nel 1913 e nel 1923 o a Marcinelle nel 1956 – dove la rincorsa a produrre energia aveva causato altrettante catastrofi del fordismo – il prezzo più alto fu pagato dall’Italia, con 56 morti. Insieme agli italiani perirono 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci, un apolide e 23 svizzeri. La provincia di Belluno fu quella più colpita con 17 vittime, insieme al Comune di San Giovanni in Fiore (Cosenza), che perse 7 uomini. Il dolore toccò tanti borghi di provincia da Nord a Sud, fino a quel momento sconosciuti, come Acquaviva di Isernia, Gessopalena oppure Bisaccia e Montella, Gagliano del Capo, Tiggiano e Ugento e, ancora, Uri, Senorbì e Orgosolo, Castelvetrano, Cormons e molti altri. La catastrofe suscitò molto scalpore in tutta Europa e rappresenta, ancora oggi, la più grave della storia svizzera dell’edilizia. Nonostante l’opinione pubblica elvetica fu molto scossa dalla tragedia – perché per la prima volta immigrati e svizzeri morivano l’uno a fianco all’altro, accomunati tutti, senza alcuna differenza, dal dolore e dall’incredulità per quanto fosse accaduto –, Mattmark per quasi cinquant’anni è rimasta nell’oblio. Questa incomprensibile rimozione, casuale e/o voluta, ci fa definire Mattmark una «Marcinelle dimenticata». Chi invece Mattmark non l’ha più dimenticata è Salvatore, che perse il padre Umberto in quel tragico 30 agosto di cinquant’anni fa, e che si salvò perché si era appena sposato con Assunta e si trovava nella sua Irpinia perché aveva ancora una settimana di ferie.
Le storie di Salvatore e Assunta, di Umberto, di Donato Arminio, la più giovane vittima (20 anni, di Bisaccia) saranno ricordate durante lo “Sponzfest” di Vinicio Capossela il 25 agosto ad Andretta.