18 Ago (laRegioneTicino) Ricordando Mattmark. Un bel libro di Toni Ricciardi ripercorre la tragedia di cinquant’anni fa
Insieme a decine di lavoratori, sotto il ghiaccio e i detriti restarono seppelliti la coscienza e il senso di giustizia di questo Paese. Non lo dimentichiamo.
Il 30 agosto di cinquant’anni fa era un lunedì. Alle 17.15, dal ghiacciaio dell’Allalin, a Mattmark nell’alto Vallese, si staccarono più di due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti che seppellirono baracche mensa officine camion bulldozer e 88 dei lavoratori impegnati nella costruzione della diga più grande d’Europa: 56 di loro erano italiani. Una catastrofe annunciata: il ghiaccio da settimane stava venendo giù a pezzi, baracche e mensa erano state poste proprio sotto il ghiacciaio, nessun allarme era installato, anche se l’instabilità dell’Allalin era nota da secoli. Scienziati, geologi e studiosi di glaciologia, consultati dopo la tragedia, respingevano la tesi del disastro imprevedibile.
Una catastrofe che ha cambiato la storia e l’immagine della Svizzera nella seconda metà del secolo scorso: ma chi se ne ricorda.
Anche oggi è lunedì. Oggi, qui nel mio rifugio valdostano, in mezzo a montagne simili a quelle vallesane, sto leggendo ‘Morire a Mattmark – L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana’ di Toni Ricciardi, appena pubblicato dall’editore Donzelli. Una lettura che mi riporta, con il pensiero, agli anni Sessanta: gli stagionali, la settimana lavorativa di 59 ore, i bambini tenuti nascosti, il “Für Italiäner ist Verboten!”, gli operai stranieri privati dei più elementari diritti d’espressione e di associazione politica, la loro pressoché inesistente sindacalizzazione. Ricordo che, allora, quella valanga di ghiaccio e quelle vittime sconvolsero la nostra sensibilità e oggi la rievocazione di quei fatti continua a sconvolgerci e a interrogare la nostra coscienza.
La catastrofe ebbe una larga eco sulla stampa italiana. Ecco che cosa scriveva Dino Buzzati sul “Corriere della Sera” del 1° settembre 1965, nell’articolo ‘L’amara favola’: (…) “Tra il muggito delle scavatrici, al cospetto della montagna finalmente immobile, con affannoso lavoro essi vengono estratti ad uno ad uno di sotto allo spaventoso sudario. Sono coloro ai quali nelle stazioni ferroviarie era stato interdetto l’ingresso nelle sale d’aspetto, quelli che certi giornali locali deploravano per l’eccessiva esuberanza, che le signore morigerate stigmatizzavano in lettere ai giornali a motivo della intraprendenza amorosa, che irritavano i gestori degli spacci per l’assurda pretesa di spaghetti cotti al punto giusto, che creavano equivoci e contrattempi per la loro ignoranza delle lingue estere. Guardateli, via via che i soccorritori li allineano per terra, uno accanto all’altro, supini, uno accanto all’altro. Ora essi non ridono e non schiamazzano più, non chiedono più spaghetti, non invocano più la mamma. La gloria più crudele e funesta li ha coronati. Fra un mese, due mesi, un anno, nessuno se ne ricorderà più nel mondo, perché questa è la legge del tempo” (…). L’articolo di Buzzati coglie il carattere dell’emigrazione italiana negli anni del boom economico. Erano gli anni della più virulenta xenofobia, dei movimenti contro l’inforestierimento, del “Volevamo braccia sono arrivati uomini” di Max Frisch: nel 1969 l’iniziativa Schwarzenbach fu respinta per poco. Nel febbraio del 1972, dunque sei anni e mezzo dopo la catastrofe, al Tribunale distrettuale di Visp ebbe inizio il processo di primo grado: il dibattito durò solo una settimana. Gli imputati (diciassette tra ingegneri, architetti, esperti, dirigenti di Electro-Watt e Swissboring Sa, impiegati dell’Ufficio sociale del Cantone, alti funzionari della Suva e dell’Ufficio federale dei trasporti) furono tutti assolti. La pena inflitta dalla pubblica accusa fu il pagamento di multe dai 1’000 ai 2’000 franchi. Al processo di appello il Tribunale cantonale di Sion non solo confermò la sentenza, ma gravò anche i familiari delle vittime del 50% delle spese processuali. “Un uomo non ha il cartellino del prezzo. E adesso tutto mi sembra addirittura pazzesco. Non riesco a rendermi conto. Ho perso un fratello e ora devo pagare la sua morte”, affermò Giuliano Acquis, fratello di una delle vittime. “Mai sentita una cosa del genere. Ha il sapore di una crudele buffonata. Quando ho dato la notizia a mio padre (…) si è sentito male. Poi mi ha guardato e ha detto: è una vergogna. Non si può tollerare questa presa in giro”.
La nostra società l’ha tollerata, questa presa in giro. La società elvetica, che mette il cartellino del prezzo sugli esseri umani; e qualcuno dalle parti del Vallese si ricorda ancora della “Coupe Mattmark, uno strato di ghiaccio, un italiano, uno strato di ghiaccio”: squallida barzelletta razzista intrisa di cinismo, disprezzo e stupidità, che ben rappresenta il degrado etico di quella società.