18 Lug Mattmark tragedia dimenticata
FLORIANA GUERRIERO – Un libro che è una sfida all’oblio caduto sulla tragedia di Mattmark. Un omaggio a cinquant’anni da quella che è più volte stata definita la Marcinelle dimenticata. A consegnarlo è lo studio di Toni Ricciardi “Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana”. (Donzelli 2015), presentato ieri alla libreria Mondadori di Avellino. A confrontarsi con l’autore, in un dibattito moderato da Rossella Strianese, Luigi Mascilli Migliorini, Accademico dei Lincei, Università l’Orientale di Napoli; Valentina Paris, Commissione lavoro Camera dei Deputati e il giornalista Generoso Picone.
Ricciardi sceglie di partire dalle fonti d’archivio svizzere e italiane, integrandole con il racconto della stampa dell’epoca. Era il 30 agosto 1965 quando, in pochi secondi, accadde l’irreparabile: «Niente rumore. Solo, un vento terribile e i miei compagni volavano come farfalle. Poi ci fu un gran boato, e la fine. Autocarri e bulldozer scaraventati lontano». Una tragedia resa ancor più inaccettabile dai tempi dell’inchiesta, oltre sei anni con l’assoluzione dei diciassette imputati chiamati a rispondere all’accusa di omicidio colposo e una sentenza confermata anche in appello. Una riflessione, quella di Ricciardi, che si fa anche tentativo di comprendere le problematiche legate al difficile processo di costruzione dell’identità nazionale, un processo che oggi non può prescindere dal riconoscimento della cultura delle minoranze, degli immigrati di ieri e di oggi, dal contatto con gli stranieri, dai viaggiatori del Gran Tour all’industria degli stranieri. Un dato testimoniato dalla scelta del cantone vallese, dove si trova Mattmark, di inserire l’italianità quale bene immateriale per il riconoscimento della sua tutela da parte dell’Unesco. Ricciardi sottolinea più volte come attraverso la storia del Cantone Vallese, a lungo rimasto isolato e chiuso in sè stesso, si possa ricostruire il passaggio della Confederazione da società rurale a industriale, attraverso i trafori e la costruzione della ferrovia. Ad emergere dalle pagine dell’autore anche le condizioni difficili in cui la comunità italiana era costretta a vivere, senza luce, senza acqua potabile, senza il minimo rispetto delle più elementari misure d’igiene. Furono necessari scioperi e proteste per garantire la tutela dei diritti dei lavoratori. Del resto, non era certo un caso che buona parte della manodopera impiegata nel cantiere della diga di Mattmark fosse straniera e quindi italiana “perché gli italiani – spiega Ricciardi – si adeguavano facilmente alle pessime condizioni abitative e soprattutto erano disposti a lavorare anche 15-16 ore al giorno, domenica compresa, a temperature che la notte scendevano sotto i 30 gradi”.
Chi lavorava a Mattmark era costretto a dormire in baracche, senza wc e senza acqua calda. Eppure nessuno dei sopravvissuti ha mai voluto ricordare questa parte della storia “In ogni baracca c’erano cento operai ma non mi posso lamentare perché si stava bene. C’era la cucina, la radio (Giuseppe Marra)”. Tanti gli episodi di razzismo a cui i lavoratori meridionali dovevano assistere, episodi che emergono con forza dalle testimonianze raccolte da Ricciardi che documentano come la paura dell’altro fosse ancora fortemente diffusa tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, con una netta discriminazione nei confronti dei meridionali. Ma Ricciardi mette in evidenza soprattutto la sicurezza precaria dei lavoratori di Mattmark, una precarietà già rilevata dall’ispettorato del lavoro cantonale “Abbiamo rilevato che, visto il clima eccessivamente asciutto, i suoi operai sono costretti a lavorare tutto il giorno in una nube di polvere. In più, quotidianamente e costantemente, sono messi in pericolo dall’andirivieni di mezzi sulle strade di collegamento al cantiere”. Condizioni che peggioravano d’inverno quando la temperatura poteva scendere fino a 35 gradi sotto lo zero con tormente che spazzavano via tutto e il rischio continuo di valanghe e smottamenti. Del resto, l’intera area del cantiere era ritenuta poco sicura come testimoniavano le inondazioni ed alluvioni che avevano preceduto la tragedia, con costante caduta di pezzi di ghiaccio e slavine che ostruivano le strade di comunicazione. Tanti i testimoni che ricordano come fosse stato presentato un reclamo da parte degli operai proprio a causa del ghiaccio che sembrava poco stabile. Nè avevano allarmato i proprietari le anomalie legate alle condizioni atmosferiche, i lavori non furono interrotti, né si pensò di sgombrare baracche e mensa collocate sotto il ghiacciaio. Erano le 17.15 del 30 agosto 1965 quando dal ghiacciaio dell’Allalin, si staccarono più di due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti. Baracche, officine e camion, tutto fu spazzato via e sepolto sotto 50 metri di ghiaccio. Testimonianze, quelle dei sopravvissuti, dai quali vengono fuori rabbia, disperazione e senso di colpa nei confronti dei compagni morti. Ma Ricciardi si sofferma anche su quella che sarà la questione dei risarcimenti alle famiglie, quello che diventerà un affare diplomatico con innumerevoli accuse rivolte al governo Moro di subalternità nei confronti di Berna. A cambiare dopo Mattmark sarà la percezione nei confronti dei migranti, che appariranno per la prima volta vittime del progresso, infliggendo un duro colpo alle proposte xenofobe della campagne referendarie, spingendo la collettività italiana a interrogarsi sulla loro presenza in Svizzera.