La ferita irpina a Mattmark

di Paolo Saggese

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Paolo Saggese – Il Mattino, ed. Avellino – 16 luglio 2015, p. 25.

L’impressione, che si ha, nel rileggere la storia dell’ultimo secolo, è che le vicende umane siano sempre regolate dalle stesse ragioni economico-politiche-sociali valide dall’età preistorica ai nostri giorni: la legge del più forte e quella del profitto sono alleate in una scrittura e definizione della realtà sempre più evidente. Metafora di questo mondo, di quel migliore dei mondi possibili di cui fantasticava un noto personaggio di Voltaire, è la tragedia di Mattmark (30 agosto 1965), nel Cantore svizzero del Vallese, di cui quest’anno cade il cinquantesimo anniversario. A questa vicenda tragica ha adesso dedicato un ricco e documentato volume un brillante ricercatore irpino, Toni Ricciardi.

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Paolo Saggese – Il Mattino, ed. Avellino – 16 luglio 2015, p. 28.

«Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana» ne è il titolo (Donzelli, pagg.172, euro 27) e oggi alle 18,30 sarà presentato presso la libreria Mondadori di Avellino da Luigi Mascilli Migliorini, Valentina Paris e Generoso Picone. Quella tragedia fu causata dal distacco di una parte del ghiacciaio Allalin, che sovrastava il cantiere che ospitava gli operai addetti alla costruzione della diga di Mattmark, e che causò la morte di 88 persone, di cui 56 italiani emigrati in Svizzera per motivi di lavoro, spinti dalla fame e dal desiderio di un destino migliore per sé e soprattutto per i propri figli. Le cronache dell’epoca, come quelle de «Il Mattino» del 2 settembre 1965, parlano chiaro e sono tuttora valide: «Le strade del mondo sono segnate dal sangue degli operai italiani». «Dove più alto è il rischio, dove più pesante è la fatica umana, e dove si richiede l’esercizio dell’umiltà e della rinuncia agli alti guadagni e ai vantaggi delle più progredite tecniche di lavorazione, là compaiono le schiere fitte e doloranti degli emigranti italiani, in cerca del posto di lavoro.
Accettano tutto, i nostri poveri emigranti, perché non hanno scelta». Nel libro, attraverso le sue dense e fitte analisi, Toni Ricciardi ricostruisce la storia recente del Vallese, da luogo mitico dei racconti di Rousseau, da Eden incantato in cui ancora vivono asserragliati alle pendici delle Alpi uomini semplici e puri – il noto mito del «buon selvaggio» – a territorio strategico per lo sviluppo industriale elvetico a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e poi nel secondo dopoguerra. Infatti, grazie alla sua ricchezza d’acqua e alla natura della sua geografia, il Vallese poteva garantire la produzione di energia idroelettrica vitale per lo sviluppo industriale della Confederazione, sempre più bisognosa di energia per poter far funzionare il suo apparato imponente produttivo. Pertanto, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Italia cominciava a festeggiare il suo boom economico, che durerà sino alle soglie degli anni Settanta, ancora milioni di meridionali soprattutto fuggirono ora alla volta del Belgio (per morire di tragedie minerarie o di silicosi) ora in Svizzera o Francia o Germania per ridare vigore a un’Europa rinata, e dunque nell’Italia ricca del triangolo industriale. I ritmi di lavoro, d’altra parte, a Mattmark come in qualsiasi altro cantiere, erano intollerabili e disumani, i riposi spesso irrisori, le baracche e gli alloggi degni di paesi incivili, e non mancavano forme più o meno esplicite di razzismo, che colpivano e mortificavano soprattutto gli italiani, e tra questi soprattutto i meridionali. E così, per fare in modo che si riducessero i tempi morti degli operai tra il riposo e il ritorno al lavoro, si decise di dislocare una parte delle baracche e la mensa del campo proprio sotto il ghiacciaio Allalin, che da sempre era stato infido e che da settimane lasciava cadere lastroni di ghiaccio sul cantiere. Non fu, dunque, la fatalità a uccidere quelle persone, fu l’incuria umana, fu l’aver dato precedenza al profitto rispetto alla sicurezza, fu l’aver come sempre dimostrato ossequio al dio denaro, unica vera religione ufficiale del nostro mondo. Quella tragedia, d’altra parte, colpì anche l’Irpinia: due operai, infatti, Donato Arminio, ventenne di Bisaccia, e Umberto Di Nenna, cinquantacinquenne di Montella, persero la vita. I loro corpi, come quelli dei loro compagni, furono probabilmente straziati dalla violenza del ghiaccio; il dolore dei loro familiari fu cantato non a caso da Nicola Arminio e Pasquale Stiso. Vi furono, come al solito, le proteste e le indignazioni di rito dei potenti, dei governi, dei giornali, dell’opinione pubblica. Ma nulla ha veramente ripagato la memoria di quelle vittime di quanto abbia fatto oggi il libro di Toni Ricciardi, che ha ricostruito con chiarezza una tragedia rimossa, consegnando a tutti noi un momento importante della nostra memoria collettiva.