Mattmark tra dramma e xenofobia

di Francesco Durante –

Francesco Durante Il Mattino, ed. Nazionale - 15 luglio 2015

Francesco Durante
Il Mattino, ed. Nazionale – 15 luglio 2015

Cinquant’anni fa, il 30 agosto 1965, due milioni di metri cubi di ghiaccio seppellirono in meno di trenta secondi 88 operai impegnati nel cantiere per la costruzione della grande diga del Mattmark, nel Canton Vallese. Ben cinquantasei di loro erano italiani, originari soprattutto del Bellunese (alcuni erano scampati quattro anni prima alla tragedia del Vajont) e della provincia di Cosenza, e poi abruzzesi, trentini, campani (tre), emiliani, friulani, pugliesi, sardi, siciliani, piemontesi, molisani e toscani. Anche per questa grande varietà regionale – «terroni» e «polentoni» insieme in una comunità che tutte le testimonianze ricordano come armonica e solidale – quella del Mattmark è considerata l’ultima tragedia dell’emigrazione italiana: non la più grande (il Novecento aveva già avuto le catastrofi minerarie di Monongah, in West Virginia, e di Marcinelle, in Belgio), ma senz’altro quella che destò il maggiore clamore mediatico e che con più forza si stampò nella memoria collettiva, anche in virtù della profonda ingiustizia di una strage consumatasi malgrado i tanti segnali premonitori e, soprattutto, rimasta impunita a capo di una vicenda giudiziaria che presenta molti punti in comune proprio con quella del Vajont. Turni di lavoro massacranti in un ambiente assai ostile (a duemila metri di altitudine in un freddo polare fra tormente di neve), la sordità rispetto alle poche voci che avevano paventato la possibilità di un disastro e, più in generale, la mancata osservanza di elementari norme di sicurezza furono il contesto in cui avvenne il disastro. La Svizzera si ritrovò al centro di una polemica internazionale e provò a difendere la propria onorabilità. In quel tempo, era il paese che proporzionalmente riceveva più immigrazione nel mondo intero, e sentimenti xenofobi erano largamente diffusi. Si spiega anche per questo l’atteggiamento francamente imbarazzante dei suoi organi di stampa in quel frangente. Un quotidiano di larga diffusione, il «Blick», arrivò a denunciare gli italiani che soffiavano sul fuoco della ribellione. Titolò infatti, con tanto di punto esclamativo: «Agitatori comunisti dall’Italia a Mattmark!» Risultato: nel 1972, e dopo che soltanto sei mesi dopo la tragedia un’altra sciagura, stavolta nel Ticino, era costata la vita ad altri 15 lavoratori italiani, un processo-lampo mandò assolti in primo grado tutti gli imputati di omicidio colposo, e in appello la sentenza fu confermata. Toni Ricciardi, studioso irpino dell’emigrazione italiana in Svizzera, racconta adesso per filo e per segno tutta questa storia, in un libro che si segnala per la ricchezza della documentazione, anche iconografica, e la serietà dell’impostazione: Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana (Donzelli, 172 pagine, 27 euro; presentazione ad Avellino domani, alle 18, alla libreria Mondadori, con Luigi Mascilli Migliorini, Valentina Paris e Generoso Picone). Ricciardi ha svolto un lavoro certosino negli archivi svizzeri (lavora all’università di Ginevra) e italiani, ha raccolto numerose testimonianze di sopravvissuti e ha saputo inscrivere il suo racconto, spiegandolo più in profondità, nel momento storico che il Vallese, già remoto eden abitato da gente poverissima ma ospitale, caro a scrittori come Rousseau, s’era trovato a vivere tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, quando partì lo sfruttamento industriale intensivo delle sue risorse idroelettriche. Una rivoluzione copernicana in un cantone che, a sua volta, era stato fin lì dissanguato proprio dall’emigrazione. A Mattmark, del resto, perirono anche 23 lavoratori elvetici, quasi tutti della zona. Malgrado la sua nota propensione a «lavare sempre più bianco», la Svizzera accusò un colpo che Ricciardi definisce «devastante»: per fornire un solo dato, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro dimostrò che i suoi livelli di sicurezza negli anni Sessanta erano i più bassi dell’intera area Ocse. Anche in conseguenza di ciò, e su pressioni del governo italiano, furono siglati nuovi protocolli a tutela del lavoratori. E il tranquillo paese alpino, scosso forse da un profondo senso di colpa, disse no ai referendum xenofobi degli anni Settanta.