13 Feb La diga di Mattmark e la Spoon River delle migrazioni
In Senato: Una mostra fotografica sulla tragedia. Nel crollo del ghiacciaio morirono 56 operai italiani
di Generoso Picone
Achenza Francesco, Acquis Giancarlo, Donato Arminio…»: l’appello che Dino Buzzati chiamò nell’editoriale sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del primo settembre 1965 faceva riecheggiare la sequenza dell’«Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Masters, scritta tra il 1914 e 1915 con i 248 epitaffi raccolti nel cimitero sulla Collina.«L’amara favola »era il titolo dell’articolo di Buzzati, due anni prima inviato di straordinarie cronache dall’apocalisse del Vajont, il quale ora si rivolgeva a «voi tutti operai della diga di Mattmark»: «Chi sapeva che foste a lavorare così in alto?». Poi ai lettori:«Guardateli per l’ultima volta. Non sono belli e tremendi? Non sono dei soldati?». I soldati di Mattmark, in Svizzera, avevano perso la loro guerra perillavoro.Alle16.30del30agosto una massa di due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti si era staccata dal ghiacciaio Allalin, seppellendo sotto 50 metri 88 degli oltre 600 lavoratori impegnati nella costruzione della diga. Una tragedia nella montagna,come ricorda la mostra fotografica che si aprirà giovedì 12 alle 14.30 presso la Sala degli Atti parlamentari della Biblioteca del Senato «Giovani Spadolini», nell’ambito delle celebrazioni per i 50 anni promosse dal Comites e dalle associazioni e dagli enti del Vallese. Una catastrofe del fordismo in migrazione, come suggerisce l’ultimo numero di «Studi emigrazione », la rivista trimestrale del Centro studi emigrazione di Roma che ai casi di Mattmark, Marcinelle, Monogah e Dawson dedica per la cura di Toni Ricciardi e Sandro Cattacin una riflessione attenta e approfondita che sarà discussa nel convegno di venerdì 13 negli spazi romani di Via Dandolo 58.«L’amara favola»è il tema prescelto, rimandando a Buzzati e ai drammi di quei giorni. A Mattmark, la struttura era stata progettata nel 1954 dall’Eletktrowatt e gli alloggi vennero sistemati sotto la lingua del ghiacciaio, aun centinaio di metri dal punto che aveva visto già nel 1949 un’altra tragedia con 10 vittime e numerosi altri incidenti nei tre secoli precedenti. Il 30 agosto, pochi minuti prima che il ghiaccio si staccasse,in tanti istintivamente e inconsapevolmente si erano spostati proprio verso le baracche. Degli 88 morti, 56 furono italiani di cui 17 provenienti dalla provincia di Belluno, 24 svizzeri, 3 spagnoli,2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Avrebbe raccontato un testimone, Mario Rapassi: «Se fosse accaduto verso le 13 i morti sarebbero stati 600!». La quantità di ghiaccio e detriti che seppellì il cantiere rese assolutamente problematiche le operazioni di pur vano salvataggio e del disperato recupero, durarono oltre 15 giorni. «Il Mattino» di Napoli, cioè il quotidiano della regione a cui appartenevano 3 vittime, 2 due quali irpine – il ventenne Donato Arminio di Bisaccia e Umberto Di Nenna di Monella: con loro il quarantenne Antonio Cesarano di Pompei – titolò l’articolo di Giuseppe Lucca del 31 agosto 1965: «Il ghiaccio di Allalin frana e travolge un centinaio di operai ».Donato Gagliardi, 35 anni di Taurano, anch’egli della provincia di Avellino, operaio della «Suisse Boring», soltanto dal 15 maggio in Svizzera, nel momento della catastrofe era nella baracca: «Per me è come se fossi nato ieri alle 17.30», quando era stato tratto in salvo dal ghiaccio e dai detriti. Il processo consegnò il 22 febbraio 1972 una sentenza beffarda e offensiva. La catastrofe fu ritenuta imprevedibile, per quelle morti la pena fu di multe da mille a due mila franchi, assolvendo tutti gli imputati dall’accusa di omicidio colposo. I familiari delle vittime la impugnarono il Tribunale di Sion confermò il primo responso addebitando loro il 50 percento delle spese processuali. Qualche anno prima, conversando con Giovanni Russo in una delle «baraques de l’italiens»alla periferia di Ginevra, un emigrato di Avellino aveva confessato:«Il forestiero è sempre forestiero. È meglio stare a casa propria anche se guadagni la metà, ma neanche quella metà a casa propria puoi avere». Per la giustizia si aspetta ancora.