Mattmark 1965 la strage degli italiani

Mattmark: l’ultima grande tragedia dell’emigrazione italiana.

Toni Ricciardi Il Mattino, ed. Nazionale - 29 luglio 2014, p. 18

Toni Ricciardi
Il Mattino, ed. Nazionale – 29 luglio 2014, p. 18

Nel cantiere di Mattmark non ci si fermava mai. Si lavorava 24 ore su 24, 6 giorni la settimana. Contrattualmente, un operaio lavorava 59 ore la settimana: “se volevi, e molti di noi l’hanno fatto […] anche 15-18 ore al giorno”. Negli anni ’60, in Svizzera – Paese che ha visto una crescita economica senza precedenti dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni ’70 – questa era la quotidianità. Erano gli anni nei quali l’emigrazione si andava progressivamente meridionalizzando. L’Appennino iniziava la sua lenta e irreversibile desertificazione. Dall’Irpinia all’Abruzzo, dalla Sila alle coste salentine, il Mezzogiorno si svuotava senza sosta. Nello stesso periodo la “piccola” Svizzera accolse da sola quasi il 50% dell’intero flusso migratorio italiano: più di 2 milioni di lavoratori. Prevalentemente stagionali impiegati nell’edilizia e nella costruzione delle grandi opere, come la diga di Mattmark. In pieno fordismo, la produzione energetica era la priorità assoluta. Come a Marcinelle nel 1956, la tragedia determinò un momento di cesura, di non ritorno nella lunga e travagliata storia dell’emigrazione italiana. Alle 17.15 del 30 agosto del 1965, dal ghiacciaio Allalin, nel cantone Vallese, vennero giù più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio che seppellirono, sotto oltre 50 metri, 88 lavoratori degli oltre 600, tra operai e tecnici, impegnati nella costruzione della diga. Delle 88 vittime, 56 erano italiani (17 bellunesi; 7 cosentini; 3 campani; gli altri di varie parti d’Italia), 24 svizzeri, 3 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Lasciarono 85 orfani. La catastrofe suscitò molto scalpore in tutta Europa e rappresenta, ancora oggi, la più grave sciagura della storia svizzera dell’edilizia e l’ultima immane tragedia dell’emigrazione italiana.
Per la prima volta, immigrati e svizzeri morivano l’uno a fianco all’altro, accomunati tutti, senza alcuna differenza, dal dolore e dall’incomprensione per quanto era accaduto, come dimostrano le parole del sacerdote durante l’omelia funebre: “Chiedere a noi e ai sopravvissuti perché sia accaduto tutto questo è come chiederlo al ghiacciaio muto. Chiederlo agli uomini? Si ottengono parole che non bastano neppure a suturare le piaghe aperte e sanguinanti”. Nell’immediato non ci fu tempo per analizzare l’accaduto, bisognava scavare con la speranza di trovare ancora vivo un amico, se non il proprio padre, fratello o figlio. Ci vollero più di sei mesi per recuperare i resti dell’ultima salma. Il ghiaccio non travolse il cantiere, bensì le baracche, verso le quali si diressero le vittime nella convinzione di trovare riparo. Se il crollo fosse avvenuto verso l’ora di pranzo, i morti sarebbero stati 600. La costruzione di un’opera così complessa – ancora oggi Mattmark è una delle centrali idroelettriche più grandi d’Europa – richiese molte indagini e perizie glaciologiche. Ciò nonostante le baracche furono piazzate ad occhio, in maniera tale da risparmiare e ottimizzare tempi e costi. Le maestranze specializzate e i tecnici vennero alloggiati a valle del cantiere, in totale sicurezza; mentre gli alloggi della manodopera furono ubicati, in linea retta, sotto la lingua del ghiacciaio. La tragedia fu molto seguita dai media: in presa diretta, oltre duecento tra giornalisti svizzeri e corrispondenti esteri raccontarono al mondo una Svizzera fino ad allora sconosciuta. In Italia le reazioni furono forti, d’altronde l’emozione per il Vajont era ancora vivissima.

Questa storia, come a Marcinelle, si concluse nel modo peggiore. I tempi dell’inchiesta furono lunghissimi, oltre sei anni. Diciassette gli imputati chiamati a rispondere all’accusa di omicidio colposo, tutti assolti, nonostante l’instabilità del ghiacciaio fosse nota da secoli. In appello andò anche peggio: assoluzione confermata e i ricorrenti (familiari delle vittime) furono condannati al pagamento delle spese processuali. Le reazioni furono di profondo sdegno e incredulità. In Svizzera, l’opinione pubblica utilizzò Mattmark come stimolo per approfondire il dibattito sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato, che richiedeva sempre più manodopera straniera scarsamente qualificata. Anche per gli italiani in Svizzera, Mattmark fu l’occasione per interrogarsi sul senso della loro presenza in un Paese in cui erano economicamente necessari, ma socialmente male accettati. L’oblio nel quale è caduta questa tragica pagina dell’emigrazione italiana, e più in generale della recente storia svizzera, ci fa parlare di Mattmark come di una “Marcinelle dimentica”. Probabilmente, senza la sua rimozione, casuale e/o voluta, il referendum del 9 febbraio scorso sarebbe stato rifiutato come tutti i precedenti.
Sarà proprio per questa ragione che Vinicio Capossela – a 49 anni di distanza – nella sua Calitri che tante braccia ha fornito alla Svizzera, a conclusione dello Sponzfest, contribuirà a tenerne vivo il ricordo.