11 Feb La Svizzera alza muri contro gli italiani
All’indomani del referendum in Svizzera col voto popolare a favore dei limiti all’immigrazione nella Confederazione, abbiamo chiesto un contributo sul tema a Toni Ricciardi, storico delle migrazioni della Université de Genève e autore di «Associazionismo ed emigrazione – Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera» (Laterza edizioni 2013, a giorni in libreria la seconda edizione, euro 20,00, ebook 9,99)
Il 30 giugno 1965 alla Cancelleria federale venne presentata la prima iniziativa popolare contro l’infiltrazione straniera, sottoscritta da 60.000 firme e avente per promotore il Partito democratico zurighese. Si chiedeva di ridurre al 10% della popolazione residente il numero degli stranieri, fossero essi fissi o in possesso di un semplice permesso di soggiorno. Una simile petizione era il segno di quanto la paura dell’inforestieramento fosse ormai diffusa nell’opinione pubblica elvetica.
Quasi cinquant’anni fa iniziò il lungo percorso della progressiva istituzionalizzazione dei movimenti xenofobi in Svizzera, che trova la sua consacrazione già durante la prima metà degli anni ‘80, un decennio prima dello sdoganamento della Lega Nord in Italia e del Front National in Francia. Durante gli anni ‘60 tornò prepotentemente alla ribalta la paura dell’infiltrazione straniera, l’Überfremdung . Un concetto sviluppatosi agli inizi del XX secolo, al centro del dibattito politico ed intellettuale della Svizzera tra la metà degli anni ‘60 e per tutto il decennio successivo, che Max Frisch, scrittore elvetico tra i più famosi, nel 1966 chiariva in maniera inequivocabile:
«Che significa infiltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lava le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario».
Il dibattito proseguì, acuendosi, nel 1969, con la seconda iniziativa antistranieri, ribattezzata Schwarzenbach (dal nome del suo proponente), e per tutti gli anni ‘70. Simili proposte furono però respinte dal popolo elvetico, non per questioni umanitarie, bensì, perché economicamente svantaggiose per la patria di Guglielmo Tell. Nonostante le cifre, le pressioni numeriche erano grosso modo le stesse di oggi. Troviamo quasi 300mila italiani (prima componente straniera presente, che in realtà supera il mezzo milione, perché 200mila hanno acquisito la doppia cittadinanza), 280mila tedeschi e quasi 240mila portoghesi. La componente italiana annovera al primo posto i lombardi, anche se sul piano provinciale la comunità più folta con le oltre 45mila presenze è quella leccese. Le presenze dei frontalieri, ossia di coloro che lavorano in Svizzera, ma risiedono e vivono all’estero (Italia, Francia e Germania) sono grosso modo le stesse di trenta e quarant’anni fa. Tuttavia, il referendum del 9 febbraio scorso non era contro gli stranieri in senso lato, come in passato, bensì contro gli accordi di libera circolazione che avvantaggiano i cittadini dell’UE. Chi? In primis, gli italiani, poi tedeschi e francesi.
Negli ospedali della Svizzera tedesca italiana non si trova un medico tedesco o italiano. Lo stesso dicasi per gli infermieri, gli architetti, per non parlare dei ricercatori universitari. Questi ultimi, però, nonostante anche i ricercatori del Cern siano stati argomento di dibattito per la destra populista, sono accettati e visti di buon occhio. Inoltre, da più di un quinquennio si registra l’aumento delle «braccia»: manovali e imbianchini. Ma anche in questo caso, eccezion fatta per il Cantone Ticino, storicamente il più xenofobo, la loro presenza è sempre stata ritenuta indispensabile per il funzionamento del sistema. Infatti, non è un caso che le città più dinamiche (Zurigo, Basilea e Ginevra) e i cantoni con le performance più soddisfacenti, soprattutto nel settore agricolo, come quelli romandi, abbiano respinto nettamente il quesito referendario. I cantoni interni, in cui vivono gli svizzeri da generazioni, economicamente meno dinamici, hanno votato a favore della limitazione, come già successe durante gli anni ‘70.
Quali saranno le ripercussioni di questo voto? Probabilmente è ancora presto per dirlo. Certamente però, le caratteristiche economiche della piccola Nazione si lasciano leggere nell’intensità degli scambi esterni di beni e servizi, nella concentrazione della produzione in alcuni settori e in alcuni rami di specializzazione ad alto valore aggiunto. La Confederazione è sempre stata troppo «piccola» per gestire l’impatto di un’economia internazionale, pur possedendo un’enorme forza destabilizzante, come un nano che gioca l’amena commedia della neutralità, ma che economicamente è un vorace gigante.
Nei prossimi mesi ne sapremo di più. La preoccupazione vera è insita nel cosiddetto effetto «emulazione» dei movimenti xenofobi, populisti ed anti-europeisti in vista delle imminenti elezioni europee. Come nei decenni scorsi, la Svizzera rischia di essere più di un elemento di destabilizzazione del sistema, nonostante sia stato il Paese che più di tutti e prima di tutti, anche più degli Stati Uniti, ha usufruito della presenza degli stranieri. E quando in Svizzera parli di stranieri, parli di italiani.