28 Ago Gli emigranti della porta accanto
Lo sguardo a cui ci invita un nuovo libro sull’emigrazione, scritto da un giovane storico che in esso ha riversato anche frammenti non piccoli della sua biografia (Toni Ricciardi, Associazionismo ed emigrazione. Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera, Laterza, pagg. 300) deve essere assai più limpido e coraggioso di quanto si possa superficialmente immaginare pensando, appunto, alla ormai non piccola mole di lavori sull’emigrazione. Niente mitologie eroiche –il Sud America o gli Stati Uniti-, niente orizzonti lontani –l’Australia-: l’oggetto sul quale siamo chiamati a rivolgere il nostro sguardo è vicino e imbarazzante.
È il luogo dove assai prima che la globalizzazione rendesse questa condizione universale, i capitali già erano abituati a muoversi con disinvoltura. È il luogo nel quale il miracolo dell’Italia anni Cinquanta nasconde la sua faccia sporca, è la cucina – peggio – la sala macchine della nuova Italia affacciata sul benessere contemporaneo. Il silenzio degli storici, degli scrittori, dei giornalisti, solo a tratti contraddetto da qualche lampo prezioso di ricerca, di racconto, è il silenzio di questa Italia che diventa opulenta perdendo la memoria scomoda, che è disposta semmai ad emozionarsi – come ora accade – per avventure transoceaniche dal sapore omerico, restando riluttante ad accettare l’idea di una miseria, di una sofferenza che si costruisce dietro l’uscio di casa, in una antica terra – la Svizzera – di libertà e di accoglienza.
La storia comincia proprio nel momento in cui, nel finire della seconda guerra mondiale, la vocazione d’asilo che aveva fatto della Svizzera un rifugio sicuro di esuli religiosi e politici, dai secoli di Lutero e di Calvino ai patrioti del risorgimento fino alla Shoah, deve misurarsi con la novità disorientante di una emigrazione sociale, di un afflusso massiccio di lavoratori il cui unico, apparente motivo di distinzione non è il credo ideale, ma la fame. Ed è in questo contesto che nasce, proprio alla fine del 1943, la Federazione delle Colonie libere, con lo scopo di tutelare, organizzare, l’universo nuovo e massiccio di chi è esule perché incalzato dalla precarietà della propria condizione materiale.
Di fronte a questo universo la “Lugano bella” degli anarchici imbruttisce, come imbruttiscono Zurigo, Berna, Ginevra, sempre più a disagio, sempre più aggressive via via che il fenomeno migratorio da stagionale, quale era stato per secoli, e di conseguenza transfrontaliero, si trasforma in permanente e al posto dei volti conosciuti di piemontesi, liguri, veneti, cominciano ad arrivare individui dal fisico inconsueto e dal linguaggio assai poco comprensibile: i meridionali. «Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, almeno di essere puliti» scrive non senza ironia Max Frisch a proposito degli stereotipi che la società svizzera costruisce sugli italiani del sud negli anni in cui, come egli riassume in una frase memorabile «volevamo braccia e sono arrivati uomini».
Ma sarebbe facile pensare che tutte le colpe di una gigantesca, collettiva epica della mortificazione stiano dall’altra parte della frontiera di Chiasso. Colpiscono, certo, i ricordi di Michele Risso, psicanalista che nel biennio 1960-61 segue oltre settecento casi di emigrati meridionali ricoverati in manicomi elvetici, travolti da una sofferenza che essi non riuscivano ormai più a dominare. Ma le pagine più interessanti di questo libro sono, probabilmente, quelle in cui il giovane autore chiama in causa il silenzio dell’Italia. L’emigrazione in Svizzera è parte integrante della questione meridionale e rappresenta un punto di interrogazione, una questione aperta ogniqualvolta si provi a intendere con correttezza intellettuale i risultati che furono raggiunti nel Mezzogiorno tra gli anni 50 e 70.
L’emigrazione, in fondo e come capì Rossi Doria, non fu il complemento, necessario di un progetto di sviluppo, ne fu semplicemente la valvola di sfogo, riproducendo in sé e amplificandone lacerazioni e smarrimenti, il disordine di ciò che, non a caso, ricordiamo ancora tutti come “un miracolo”. Il riassunto simbolico di questa colpevole causalità può ritrovarsi nella tragedia dimenticata di Mattmark, su cui Toni Ricciardi annuncia il suo prossimo lavoro, dove il 30 agosto del 1965 due milioni di metri cubi di ghiaccio, staccatisi dalla montagna di Allailin travolsero 88 operai meridionali che lavoravano alla costruzione di una diga. La prudenza delle autorità svizzere, e le assoluzioni che seguirono una lunga vicenda giudiziaria, si riflettono nella indifferenza con cui i governi italiani accompagnarono l’inchiesta e le sue conclusioni. Rimangono, come un’eco lontana, i resoconti di Dino Buzzati sul Corriere della Sera, a ricordare che «l’emigrazione è una favola che divora», a spiegarci che come il Vajont spense le luci sul miracolo italiano, così Matmark seppellì l’illusione collettiva di una fortuna dietro l’angolo.