28 Mar Migranti per la vita
Nel libro di Toni Ricciardi la dettagliata e appassionata ricostruzione dell’emigrazione italiana in Svizzera. I drammi, l’associazionismo, le lettere, le testimonianze.
Quando Nino Garofolo, dopo aver tentato invano di integrarsi in Svizzera, blocca il treno in galleria, sotto il passo del San Gottardo, e scende, con in mano la valigia, per tornare oltralpe, il pensiero è: meglio vivere da immigrato irregolare che rientrare in Italia. Nino, un indimenticabile Manfredi con i capelli biondi nel film di Brusati, “Pane e Cioccolata” (1973), aveva scelto di restare, nonostante tutto. Come lui altri 5 milioni di italiani, tra il 1861 e il 1985, si sono diretti verso la Confederazione Elvetica, la terza comunità italiana nel mondo. Ma quanto è costato a quelli che hanno rinunciato, per sempre o per decenni, all’idea di tornare a casa? Le condizioni di lavoro, le scarse tutele sindacali, il dramma di migliaia di bambini clandestini, per non parlare delle morti bianche e di tragedie dimenticate, come la valanga di ghiaccio sulla diga di Mattmark che da sola costò la vita a 56 operai italiani, due dei quali irpini. Storie di una Svizzera italiana che dal dopoguerra, e fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, ha accolto quasi il cinquanta per cento del flusso migratorio del nostro paese. Ad assicurare una rappresentanza unitaria di tutti gli italiani e degli esuli del fascismo c’era la Federazione delle Colonie Libere (Fclis). «Libera perché bene supremo è la libertà, la dignità, la responsabilità individuale, perché un gregge di pecore non può essere libero» (dal primo bollettino per i soci della Fclis dicembre 1947-gennaio 1948). Oltre 1500 strutture associative a carattere religioso, politico, sociale, un’eccezione senza precedenti.
Ripercorrere la storia e quello che fu il vero ruolo dell’associazionismo in emigrazione significa dunque raccontare la presenza italiana in Svizzera e di come si intreccia con la storia d’Italia, farlo attraverso una prospettiva inedita, parzialmente sconosciuta alla storiografia. E’ ricostruire un pezzo significativo del grande mosaico della storia dell’emigrazione italiana che ha cambiato radicalmente il volto del nostro paese e degli stessi paesi in cui i nostri connazionali si sono trasferiti.
Un grande lavoro di ricucitura e di rilettura del fenomeno migratorio, che Toni Ricciardi, studioso e ricercatore presso l’Università L’Orientale e l’Università di Ginevra, ha compiuto in cinque anni tra Napoli e Zurigo. Un lavoro che è diventato un libro, dedicato – e non poteva essere altrimenti – ai suoi amati genitori, Rosina e Salvatore, migranti irpini in Svizzera. Il titolo del libro è «Associazionismo ed emigrazione. Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera» (Laterza, pagg. 318, euro 20).
Lettere, circolari, materiale di propaganda, quotidiani e riviste dell’epoca, inchieste, atti congressuali e di convegni, documenti diplomatici e della polizia degli stranieri, atti parlamentari: le fonti innumerevoli e spesso inedite di questa storia (a partire dalla foto, bellissima, in sovraccoperta delle lavoratrici italiane in entrata a Chiasso, anni ’50) e la quantità di dati e statistiche, pagina dopo pagina, vanno a scardinare alla radice gli stereotipi che da sempre accompagnano la vicenda migratoria italiana in Svizzera (determinanti sono stati i fondi presenti presso lo Schweizerisches Sozialarchiv di Zurigo, utilizzati come fonte primaria).
Per esempio scopriamo che furono soprattutto italiani del nord-nordest i primi a migrare verso la Svizzera e poi solo a partire dagli anni sessanta, in pieno boom economico, il fenomeno cominciò a riguardare anche il Mezzogiorno, o meglio quelle terre dell’osso, zone di montagna e di collina dell’entroterra campano, calabrese, lucano e molisano dove la riforma agraria stentò, e probabilmente non riuscì mai, a modificarne la caratteristica strutturale: la miseria. Che era miseria culturale, prima che economica, e politica prima ancora che sociale. Il lavoro delle Fclis non fu solo dunque quello di tutela delle condizioni degli immigrati, della legislazione, delle tipologie di lavoro e dei salari. Fu anche formazione (negli anni 60 il divario tra nord e sud Italia, sul piano dell’analfabetismo e del livello di politicizzazione delle masse era ancora enorme), cioè di contrasto a una forte disparità tra vecchi e nuovi emigranti.
Un’opera di integrazione “tra” italiani in Svizzera che quasi anticipava quelli che poi sarebbero stati i processi di unificazione linguistica e culturale nel nostro Paese. E fu lavoro di cura, a trecentosessanta gradi, perché si aveva a che fare con i tanti italiani, soprattutto meridionali, alla ricerca di un difficile adattamento al nuovo contesto di vita. «Fu questo il compito ad esempio di Michele Risso, psichiatra e psicanalista – racconta Ricciardi – il quale nel biennio 1960-61 studiò i casi di ben 709 pazienti italiani in 16 cliniche psichiatriche, manicomi e case di cura della Svizzera tedesca, cercando di comprendere i problemi degli emigrati, che un qualsiasi psichiatra tedescofono o francofono avrebbe difficilmente capito e facilmente, troppo facilmente, interpretato come una grave malattia mentale quale poteva essere la schizofrenia». E allora troviamo la lettera portata da un meridionale in stato di agitazione al consolato di Zurigo. L’uomo raccontava che sua moglie voleva avvelenarlo perché credeva che le fosse stato infedele. Simili testimonianze ci danno un quadro delle condizioni ma soprattutto delle percezioni che questi individui avevano del proprio malessere psicologico, non tanto legato alla malattia mentale, bensì riferito a quel sentimento che anche gli Svizzeri avevano vissuto secoli prima, “l’Heimweh”, che tradotto letteralmente significa “mal di casa”.
I libro è diviso in cinque capitoli, dai primi anni della Federazione (1927-1944), a quelli successivi al conflitto mondiale (1945-1955), dell’emigrazione dal Sud (1956-1964), dei tentativi di integrazione, cui si oppongono vasti fenomeni xenofobi (1965-1975), accompagnando il lettore nella comprensione di quel grande cambio di prospettiva politica nei riguardi dell’emigrazione italiana, passata in pochi anni da valvola di sfogo a valvola di sicurezza. Ricciardi riesce in una dicotomia mirabile, a muoversi tra il dettaglio e il contesto, tra i trattati internazionali che furono sottoscritti, numerosi, nel primo periodo, tra Italia e Svizzera, alla lenta e difficile sindacalizzazione dei singoli operai, dai grandi conflitti ideologici successivi alla seconda Guerra mondiale alla divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti, con gli equilibri interni all’Italia, che voleva liberarsi di manodopera disoccupata e politicamente pericolosa a fronte degli interessi elvetici, che esigevano un’emigrazione contingentata e non politicizzata, per poter meglio controllare il fenomeno e la propria stabilità.
Un intero capitolo, il quarto, spiega le origini della cosiddetta “paura dell’infiltrazione straniera”, il panico svizzero per l’inforestierimento che fu al centro del dibattito politico e intellettuale. «La fase referendaria contro “l’invasione” fu preceduta da due eventi significativi – spiega Ricciardi -: la trasmissione televisiva “Un’ora per voi” condotta da Corrado, coproduzione italo-svizzera che divenne presto un punto di riferimento per gli immigrati tanto che migliaia saranno le lettere inviate alla redazione del programma. E poi la tragedia di Mattmark. La Marcinelle dimenticata». Ottantotto lavoratori, 56 italiani, furono seppelliti da 50 metri cubi di detriti e neve staccatisi dal ghiacciaio di Allalin alle 17,15 del 30 agosto 1965. «All’inizio si parlava di catastrofe naturale, poi cominciarono a frasi strada le prime riflessioni sull’efficacia delle misure di sicurezza adottate». La tragedia fu molto seguita dai media di tutto il mondo. Partì l’inchiesta, le voci di critica si moltiplicarono, ci furono interpellanze al governo italiano. Le pressioni e lo scalpore fecero sì che venisse promulgata una legge speciale per riconoscere un assegno alle famiglie dei lavoratori italiani periti nella sciagura. Ma i tempi dell’inchiesta furono lunghissimi. Alla sentenza di appello del Tribunale cantonale di Sion che pervenne a una assoluzione completa degli imputati, la Svizzera entrò nell’immaginario collettivo come un Paese arrogante e crudele. Le tensioni crebbero, arrivarono i referendum xenofobi, la carta rivendicativa dei lavoratori emigrati in Svizzera.
Al susseguirsi cronologico di questo racconto fa da collante, sempre, la storia delle Fclis. L’asse principale è determinato dalla cronologia degli eventi generali e dall’evoluzione delle politiche migratorie, mentre le singole fasi, gli anni chiave, gli episodi determinanti o i momenti di cesura sono stati letti ed interpretati attraverso le Colonie Libere che ancora oggi rappresentano un faro per la comunità italiana.
“La sfida non sta nel cercare di fermare le migrazioni, bensì nell’attuare politiche di aiuto allo sviluppo e d’integrazione efficaci che coinvolgano i diversi settori della società, siano essi politici, economici, sociali. Solo una politica d’integrazione basata sul rispetto reciproco e sulla partecipazione democratica sarà in grado di costruire una società migliore” (Claudio Micheloni – 2010 nella lettera che chiude il libro).